Sospeso sul ponte tibetano Kormákur scorda la montagna e il suo “Everest” gela la sala
di Michele Gottardi
L’Everest si staglia sul grande schermo della Mostra ed è gelo in sala. Ma non per il pathos che il regista Baltasar Kormákur trasmette allo spettatore impaurito dalla tormenta o dal freddo; o per le paure che gli esiti del film incutono. “Everest” resta sospeso sul ponte tibetano delle infinite soluzioni, non osando fare un film completamente spettacolare e hollywoodiano, né riuscendo fino in fondo a trasmettere quel senso di mistero e di pericolo che la montagna più ostica del mondo ancora mantiene, nonostante le orde barbariche che l’hanno aggredita in questi ultimi vent’anni.
Proprio all’origine di questo “sfruttamento” dell’Everest c’è stata la tragedia del 10 maggio 1996, cui il film è ispirato, e che non ha portato alcuna diminuzione nelle “comitive” di turisti d’alta quota che si riversano oltre il campo base verso gli 8.848 metri, sborsando 70-80mila dollari e riempiendo i ghiacciai di immondizie.
L’idea di fondo di Kormákur, che ha trasferito molti ricordi della sua infanzia nell’Islanda estrema, era di mettere l’uomo di fronte alla natura, alla forza stessa della montagna, cui «spetta sempre l’ultima parola». Al di là della delineazione di caratteri forti, cui il cast hollywoodiano dà una certa solidità, la storia è scandita dalle battaglie dei singoli. La regia riporta la vicenda in un’ottica molto americana, anche se una delle due spedizioni è guidata dal prudente neozelandese, Rob Hall (Jason Clarke) di Adventure Consultants mentre Scott Fischer (Jake Gyllenhaal), un alpinista di comprovata esperienza, è il team leader di Mountain Madness di Seattle. Contrapponendo caratteri e personaggi, Kormákur inserisce il film nel dilemma antico della lotta dell’uomo contro la natura, avventura o conquista? E a giudicare dalle prime sequenze, il dubbio non regge, troppo simile a un’incursione dei marines, elicotteri e slogan all’unisono. Poi il film comincia a mutare registro, virando verso tragedia e precipizio. Il dubbio che sorgeva - anche sulla scorta di una polemichetta avanzata da Reinhold Messner, che dava per assente il senso stesso della vetta -, era: ci sarà la montagna? A luci spente, la sensazione del grande alpinista viene in parte confermata. Senz’altro non è stato (solo) girato su una pista di sci come ha detto Messner (le montagne della Val Senales sono state l’Everest, mentre a Cinecittà in studio è stato ricostruito l’interno del campo base), ma certamente il cinema di montagna è altra cosa. Elevare il dramma a spettacolo aumenta l’attenzione dello spettatore ma qui troppe vicende familiare e colpi di scena ne fanno un’occasione mancata.
Presenti a Venezia alcuni dei sopravvissuti della vicenda: Jane Arnhold con la figlia Sarah che non vide mai il padre, il capo della spedizione, Sarah Hellen la responsabile di quel campo base, lo sherpa Ang Dorje.
Il film sarà nelle sale il 24 settembre.
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