Sindrome di Livia e tradimenti: Venezia riparta da residenzialità e cultura

La città nel terzo dopoguerra: il futuro alla prova del virus che ha stravolto tutto e che rappresenta un bivio, ma anche un’occasione storica. A saperla sfruttare  
Interpress\M.Tagliapietra Venezia 22.03.2020.- Venezia deserta. Canal Grande Salute.
Interpress\M.Tagliapietra Venezia 22.03.2020.- Venezia deserta. Canal Grande Salute.

VENEZIA. C’è un film bellissimo e quanto mai esemplare per descrivere la situazione della nostra città e della sua classe dirigente, ed è Senso di Luchino Visconti (1954). Nel film si narra la tragica vicenda sentimentale della contessa Livia Serpieri (la splendida Alida Valli), che si lega in modo lancinante a un tenente delle truppe d’occupazione asburgiche e finisce in un vortice di tradimenti che sono lo specchio drammatico delle contraddizioni della sua classe, l’aristocrazia, di fronte al problema dell’Unità d’Italia e non solo.

Ebbene, da anni credo che questa città e la sua classe dirigente soffrano della sindrome di Livia, condannandosi a una dimensione di tradimento ontologico, senza fine. La contessa trasgredisce dapprima la sua collocazione aristocratica e di potere, per abbracciare la causa patriottica; quindi finisce tra le braccia di un tenente di occupazione, al quale regala un certificato di inidoneità al fronte, pagato con la cassa dei liberali che gliel’avevano affidata, e infine, ultimo tradimento, denuncia Franz alle autorità come disertore, dopo che questi l’aveva lasciata per un’altra.

Interpress\M.Tagliapietra Venezia 31.03.2020.- Piazza San Marco.
Interpress\M.Tagliapietra Venezia 31.03.2020.- Piazza San Marco.


È così anche per Venezia, che nega la propria natura almeno dal XIX secolo, svendendosi e svendendo il proprio patrimonio immobiliare, artistico, documentale e financo affettivo. Ed è vero, in tutto questo, che la città e i suoi abitanti non sembrano rendersi conto che l’impero è finito. Tutto viene digerito con appena qualche rigurgito di acidità, senza accorgersene, come se fosse tutto naturale.

E così si è tradita la propria natura commerciale, poi quella industriale e infine culturale e anche turistica, ogni volta abbassata, svilita, deprezzata, si badi, non nella massificazione in sé, ma nel modo come essa è stata gestita. Ogni volta che sembra toccare il fondo, Venezia riesce ancora a raschiare un ulteriore fondo del barile, non accorgendosi che ormai siamo arrivati ai masegni.

Oggi siamo di fronte davvero a un bivio e a un’occasione storica. Il Covid-19 e le sue ripercussioni nei prossimi mesi impongono un cambio di punto di osservazione e l’adozione di scelte necessarie, a partire dalla residenzialità. Il focus non può più essere sempre e solo il Mo.Se e la sua scellerata gestione.

Ormai quello c’è e con quello bisogna fare i conti, economici e politici. Ma non possiamo continuare a farci atterrire dal Moloch, quasi un alibi delle nostre insipienze. Occorre intervenire offrendo case ai giovani under 40 perché restino in città e l’occasione delle residenze turistiche può diventare una via d’uscita: a meno che non si voglia lasciarle sfitte per un anno o due, esse potrebbero esser date a residenti o a studenti, con un intervento del Comune che abbassi ulteriormente le imposizioni fiscali rispetto ad altre residenze, che rimarrebbero a scopi turistici.

O ergersi a garante, assieme alle Università, di queste locazioni, alleggerendo il carico burocratico (fidejussioni, cauzioni, anticipi) che esse comportano.



Il problema del lavoro va risolto incentivando i trasporti via treno o metro regionale: andare a lavorare a Padova o a Treviso non è nulla al giorno d’oggi, forse chi dalla città patavina si sposta a Vicenza, si pone questo problema?

E aumentando i residenti, tornerebbero anche quei negozi di vicinato che in questa crisi sanitaria hanno mostrato particolare intelligenza e disponibilità nel rifornire chi è rimasto a casa.

Altre occasioni di defiscalizzare le attività produttive tradizionali vanno studiate, evitando di percorrere l’improponibile strada dello statuto di città franca.

E va gestita bene la grande industria della cultura, che a Venezia è la terza risorsa, senza pensare sempre a grandi eventi, che poi sono piccole gocce nella quotidianità turistica. Venezia ha bisogno di normalità, perché straordinario – e lo vediamo nella crisi sanitaria che ci avvolge – è saper gestire, amministrare e percorrere la vita di tutti i giorni.

Va rilanciato il porto senza fermarsi ancora davanti all’altro Moloch delle crociere. La portualità veneziana non è solo passeggeri, ma contenitori, merci.

Occorre anche qui diversificare l’offerta, pensare alla formazione nella logistica e alla chimica verde, che da alcuni settori già viene suggerita. E questo potrebbe davvero essere un settore trainante per il rilancio della città. E va riscoperto quell’animo solidale, correttamente multietnico e multiculturale che è sempre stata la matrice della Serenissima, che non è mai venuta meno alle proprie tradizioni solo perché nella Dominante vivevano a dozzine etnie e religioni diverse. Anche attraverso Comitati internazionali, istituzioni di prestigio, sedi di Ong e organismi sovranazionali.

Dunque meno contesse Serpieri in bilico tra tradimenti e sogni, meno padri nobili sempre pronti a cercare di influenzare le sorti della politica locale, meno arzilli decani a far da tappo alla crescita delle nuove generazioni under 50.

Solo così Venezia potrà tornare a essere quel laboratorio della politica che fu in passato; solo così Venezia potrà evitare ulteriori e definitivi tradimenti, cercando di sfruttare l’occasione, pur sempre tragica, offerta dal coronavirus. —

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