Sfilano in 1.500 per dire «basta violenza»
Sotto le bandiere dell’Italia e del Bangladesh - un disco rosso su sfondo verde - ci sono studenti liceali, cuochi e camerieri, gli operai dei sub-appalti della Fincantieri. Chiedono, a una sola voce, come recita lo striscione tenuto da un gruppo di ragazze all’inizio del corteo, di poter vivere «sicuri nella città di tutti». È colorata e allegramente confusa la risposta della comunità bengalese - la più numerosa della città con oltre 7 mila persone di cui 5 mila residenti - alle almeno trenta aggressioni subìte nel corso degli ultimi mesi da membri della comunità e che, come ricorda il portavoce Kamrul Syed, «si sono intensificate nelle ultime settimane, in centro a Mestre, dopo essere iniziate a Marghera nel 2013».
Più di 1500 le persone che ieri pomeriggio hanno sfilato dalla stazione ferroviaria lungo via Piave e via Carducci per raggiungere poi piazzetta Coin. Quasi tutti bengalesi, qualche italiano tra i quali alcuni rappresentanti politici, candidati alle amministrative e alle regionali ma nessun candidato a sindaco. «Noi li avevamo invitati, fa niente», dice Kamrul, sapendo che la forza del messaggio è nei volti delle persone che è riuscito a mettere in fila. Lo ha fatto perché c’era bisogno di «dare un segnale forte e chiaro», e perché temeva che qualche adolescente potesse sfogare la rabbia in modo diverso.
«Prendi mio cugino», spiega Murad Sohan, 19 anni, cameriere al Kofler «tre settimane fa stava tornando a casa quando è stato aggredito in Corso del Popolo, Così, per nulla. Perché? Può succedere una volta, ma questi ragazzi se la prendono sempre con noi, e noi non ce la facciamo più». Per Sonia Begom, studentessa 18enne all’ultimo anno dello scientifico al Bruno e il sogno di diventare medico c’è un clima che, al di là delle aggressioni, si sta diffondendo in tutta la città. Snocciola una serie di episodi, e poi arriva al punto della questione: «Il punto è che molti italiani credono che questa città sia solo casa loro. E invece è anche casa nostra».
Lei è arrivata quando aveva 7 anni, la città le ha insegnato la gioia ma anche il dolore, quando nel 2010 ha perso un fratello, colpito con un pugno mortale da un cittadino rumeno in via Rosa. Anche dopo quell’omicidio, la comunità scese in strada, per chiedere più sicurezza. Sonia lo ricorda bene, non è sicura che sia servito, ma ha deciso di tornare a protestare, e quando il corteo passa davanti a casa sua, a metà di via Piave, dice: «Vogliamo vivere tranquilli, siamo qui per lavorare, per vivere tutti insieme, anche noi siamo mestrini». Accanto a lei ci sono i coetanei che urlano slogan contro la baby-gang, i giornalisti di Bangla -Tv che fanno le riprese e preparano il servizio per il tg della tivù della comunità. Ci sono tante adolescenti - sono un po’ meno le madri - che alzano cartelli che dicono sì alla convivenza e no alla discriminazione. E poi ci sono anche, tra i tanti, Zaman Maniruz, 30 anni e Md Emon, di 31, entrambi operai alla Fincantieri di Marghera. Qualche volta, quando non c’è stato lavoro, hanno fatto gli ambulanti, vendendo fiori e giochetti ai turisti. «Sta diventando tutto più difficile», dicono, «e per noi era importante essere qui oggi per dare un segnale tutti assieme». I fiori, capiscono che quello degli ambulanti è un argomento sensibile. E Zaman dice: «Se devo mangiare preferisco vendere fiori piuttosto che rubare».
Lungo tutto il corteo gli occhi sgranati di molti italiani. È come se i bengalesi, occupando le strade di Mestre per chiedere una città sicura, ci dessero uno specchio in cui scorgiamo chi siamo e il senso di una partecipazione smarrita. Per dirla con le parole di Franco Bertolini, uno dei pochi italiani presenti al corteo: «Il problema della sicurezza e della convivenza in questa città riguarda tutti noi, per fortuna che ci sono loro, con questa, iniziativa a ricordarcelo».
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