Sfida alla crisi, operai a Mestre comprano le aziende
MESTRE. Negli uffici di Legacoop di via Ulloa a Marghera ci sono da alcune settimane tre nuovi dossier, tre nuove richieste: due fabbriche e un’impresa edile. Si sommano alle decine di pratiche aperte nel corso degli ultimi anni in Veneto, in gran parte poi chiuse nel cassetto. «Perché il worker buyout», come spiega il presidente di Legacoop Veneto Adriano Rizzi, «non è un vestito adatto a tutte le imprese».
L’espressione inglese indica quel percorso che porta i lavoratori a organizzarsi in cooperativa per rilevare la fabbrica, quando questa sta per chiudere i battenti. «Perché non ci proviamo noi, a farla ripartire?», si chiedono a un certo punto della storia gli operai, quando i cancelli della fabbrica si stanno per chiudere con il lucchetto.
Detta così sembra quasi facile. Ma i lavoratori che ci provano devono mettere mano al portafogli, investendo i soldi della propria mobilità (ora chiamata Naspi), imparare un mestiere nuovo (quello dell’imprenditore) e assumere la responsabilità del capitale di investimento. Nel Veneziano i lavoratori hanno preso in mano i destini di due aziende, la Sportarredo di Gruaro e la Berti di Tessera, mettendo nel capitale quasi 500 mila euro della propria mobilità.
Per questo non può essere un salto nel buio, per questo la maggior parte delle proposte che arrivano alla Legacoop - e ormai a segnalarle sono anche i rappresentanti sindacali, in una prima fase ostili nei confronti di questo tipo di operazioni - vengono approfondite. E poi respinte. La selezione è, per fortuna, severa. Il percorso di workers buyout (Wbo) si avvia, va d sé, quando le aziende sono in crisi, per i motivi più disparati. «L’obiettivo di queste operazioni», spiega Rizzi, «non è salvare posti di lavoro per qualche mese, ma costruire imprese.
La prima domanda che ci si fa quindi è: perché l’azienda è in crisi?». Possono esserci problemi di prodotto o di mercato che vanno analizzati. Secondo passaggio: coinvolgere i lavoratori, far capire loro bene quali sfida li attenda, l’investimento della mobilità. Terzo: coinvolgimento del sindacato, senza il quale è difficile riuscire a coinvolgere i lavoratori. Tutti sono ben accetti, ma non i titolari dell’impresa che sta per chiudere.
«Non vogliamo padroni dentro», chiarisce bene Rizzi, «perché il Wbo non può essere un modo per togliere le castagne dal fuoco della crisi aziendale». Il percorso prevede prima l’affitto del ramo d’azienda, poi l’acquisto vero e proprio, un passaggio che quest’anno, ad esempio, si prepara ad affrontare la Berti di Tessera.
Le fonti di finanziamento per far decollare la cooperativa sono, oltre alle risorse dei lavoratori, il fondo Coopfond - alimentato dal 3% che tutte le cooperative aderenti versano annualmente - e il Cfi, il Consorzio pubblico statale. «Assente in questa fase», dice polemico il direttore di Legacoop Veneto, Franco Mognato, «è la Regione, attraverso Veneto Sviluppo. Società che, nonostante il grande impegno dell’assessore Donazzan - che però non aveva una competenza diretta - e nonostante le promesse non ha versato un euro». Altro passaggio delicato è il confronto con le banche, per aprire i cordoni del credito.
L’avvio dell’impresa è un punto di arrivo, ma soprattutto un nuovo punto di partenza, con nuove sfide all’orizzonte. Le nuove relazioni sindacali tra soci, l’andamento retributivo, la necessità di liberare risorse per gli investimenti e per il ritorno del capitale. C’è da soffrire e sudare, prima di raggiungere le soddisfazioni.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia