Sermoni in italiano per la sicurezza

Il presidente della comunità islamica: noi lo facciamo già. L’imam Kamel: utile per diminuire il rischio estremismi
Di Marta Artico
Foto Agenzia Candussi/ Baschieri/ Marghera, Moschea di via Monzani/ La comunità islamica veneziana festeggia la fine del Ramadan presso il Centro Islamico di Venezia.
Foto Agenzia Candussi/ Baschieri/ Marghera, Moschea di via Monzani/ La comunità islamica veneziana festeggia la fine del Ramadan presso il Centro Islamico di Venezia.

Uso della lingua italiana nei sermoni del venerdì, formazione degli imam, luoghi di culto. Il ministro Marco Minniti, nei giorni scorsi, ha presieduto al Viminale la riunione del tavolo di confronto con i rappresentanti delle associazioni e delle comunità islamiche, durante il quale si è discusso a tutto tondo dei temi legati all’integrazione, all’esercizio della libertà religiosa, alla convivenza pacifica. Tra le indicazioni, riprese un po’ da tutti, compreso l’imam di Venezia Hamad Mahamed, anche la traduzione del sermone in italiano per motivazioni legate alla sicurezza e alla convivenza civile. «Si tratta», spiega il presidente della comunità islamica di Venezia e provincia, Amin Al Ahdab, «di una indicazione che nella nostra moschea facciamo nostra da anni. Per noi sarebbe impensabile un sermone solo in arabo: abbiamo 30 nazionalità differenti, una rappresentanza dei Paesi orientali, indiani, africani, i bengalesi non capiscono l’arabo, ad esempio. Per forza di cose il sermone dev’essere in italiano, anzi, cerchiamo di recitarlo quasi più in italiano e sicuramente in duplice lingua».

Prosegue: «Adesso ho dato disposizioni di utilizzare ancora di più l’italiano e meno l’arabo, perché la maggioranza dei frequentanti, ripeto, non sono “arabofoni”, il sermone dev’essere compreso da tutti proprio per una questione di rispetto. Il nostro è il centro di tutti e di tutte le nazionalità, pertanto l’italiano è la lingua ufficiale del centro, l’arabo è la lingua della preghiera ufficiale, ma non ricordo una volta che non abbiamo fatto la traduzione». Non solo: «È anche un modo, per molti, di migliorare l’italiano, uno strumento per crescere e aiutare la società ad avere cittadini integrati: più si conosce la lingua meno errori si fanno e più comprensione della società si ha, una persona che parla male l’italiano può capirti male e tu puoi capire male lui, invece in questo modo l’inserimento è più facile e i muri cadono». Racconta: «Ai bambini, quando vengono per imparare l’arabo, noi parliamo anche in italiano e a chi non lo sa cerchiamo di insegnarlo, una volta tenevamo corsi per chi era appena arrivato».

«Il Governo», commenta Layaki Kamel, imam del Veneto, «penso insista sui sermoni in italiano per tranquillizzare l’opinione pubblica, c’è però da dire che qui da noi, nei centri islamici veneti, non esiste questo problema: siamo chiamati a utilizzare l’arabo per i versetti, i detti del Profeta, ma il sermone viene tradotto in italiano. Gli imam in un primo momento utilizzano l’arabo, poi dopo qualche minuto fanno la traduzione in italiano, alcuni centri dimezzano il tempo, a seconda dell’utilità: si usa il buon senso, perché il sermone dev’essere funzionale ai fedeli».

Chiarisce: «Ricordiamoci che ci sono la seconda e la terza generazione, che i ragazzi nati in Italia non conoscono l’arabo: se non diamo noi le corrette indicazioni, accade che i giovani cercano di soddisfare la loro sete di senso utilizzando la rete, il web, il che è deleterio. L’utilizzo dell’italiano non serve per compiacenza, ma è un’esigenza interna di formazione autentica, che fa diminuire i rischi di estremismi. Per tutti noi è importante la sicurezza del Paese».

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