Coperte, merendine e the: l’impegno del Rivolta a Mestre per gli ultimi in nome di Jack

Una notte assieme ai volontari del centro sociale per le strade di Mestre e Marghera in aiuto dei senzatetto e dei tossicodipendenti ricordando Giacomo Gobbato, ucciso a coltellate da un rapinatore

Giacomo Costa
I volontari del Rivolta che organizzano i giri della serata
I volontari del Rivolta che organizzano i giri della serata

«Giorgia, Milo, Elena e Chiara faranno Marghera, stazione, corso del Popolo. Bisogna capire chi può fare un salto a Favaro. Lina, Elena, Martino e Gaia: il vostro gruppo può fare il Piraghetto e i dintorni, così alleggeriamo il giro di chi fa via Piave. Occhio, però, che lì vi “svaligiano”: la settimana scorsa abbiamo finito per lasciargli tutto quello che avevamo, dopo quella tappa siamo dovuti tornare alla base a fare rifornimento di tutto».

In cerchio, dietro i cancelli del Rivolta, i ragazzi sono una ventina e si stanno dividendo compiti e zone con la sicurezza di chi ormai aggiunge voci a un copione ben rodato. E in effetti è così. L’aria, fredda e spezzata dalla condensa dei respiri, delle risate, è elettrica.

Poi, all’improvviso, l’atmosfera si fa più greve: tra i volontari c’è una ragazza alla sua prima uscita, offre a Laura l’occasione di ricordare a tutti non solo cosa devono fare, ma soprattutto perché: «A settembre un nostro amico, uno di noi, Jack, è rimasto ucciso, accoltellato da un rapinatore, un uomo marginalizzato. C’è stata una manifestazione, diecimila persone in piazza, ma poi ci siamo chiesti cosa potevamo fare per evitare che succedesse di nuovo. Abbiamo puntato il dito contro l’amministrazione comunale, è vero, ma abbiamo anche deciso che non potevamo criticare e basta».

Dalla morte di Giacomo Gobbato sono passati cinque mesi; tra ottobre e dicembre non solo gli attivisti del centro sociale di Marghera, ma tutte le realtà che hanno aderito alla rete “Riprendiamoci la città” hanno raccolto coperte, giacche, sciarpe, generi di prima necessità, tanti da riempire interi magazzini.

Alla fine del 2024 sono iniziati i giri di distribuzione; ogni mercoledì sera, si parte dal Rivolta ma non sono solo i ragazzi a scendere in strada, a decidere di andare incontro agli ultimi: spesso a loro si uniscono anche gli attivisti delle altre associazioni, o semplici volenterosi. L’appuntamento è alle 18.30, quando si comincia a fare l’inventario, a preparare il the e il caffé con cui saranno riempite due dozzine di thermos, poi si parte sulle 20, divisi in auto cariche fino al limite di sopportazione. Il rientro è almeno alle 23, e comunque solo dopo aver verificato ogni segnalazione, aver controllato ogni giaciglio conosciuto, aver cercato quel volto noto che non si trova.

«Le prime settimane siamo stati impegnati in un lavoro di mappatura», ricorda Sebastiano Bergamaschi, che a settembre è rimasto ferito assieme a Gobbato e che, da anni, è uno dei ragazzi più impegnati del centro sociale e del laboratorio Pandora, «Abbiamo verificato i punti di ritrovo più frequentati, abbiamo imparato a conoscere meglio la città. A tutti offriamo una bevanda calda, che è un modo per instaurare un contatto, a tutti allunghiamo un foglietto con le informazioni utili per i centri d’accoglienza, le mense, le docce. Accettiamo richieste, senza promettere niente, ma quello che possiamo lo recuperiamo. C’è un ciclo continuo di fazzoletti, assorbenti, merendine».

Il giro agli angoli di strada

Il giro si limita agli angoli di strada, ai portici, ai ripari della stazione, ai sottopassaggi e ai cavalcavia, niente intrusioni negli stabili abbandonati: «Chi trova rifugio lì difficilmente vuole essere disturbato».

Nessuno dei ragazzi indossa una pettorina o un altro simbolo: un’altra scelta consapevole, non si è voluto creare alcuna separazione tra un “noi” e un “loro”. «E poi», sorride Laura, «preferiamo essere riconosciuti per i nostri volti, non per i vestiti».

Non sono accorgimenti da poco: qualcuno l’hanno deciso gli attivisti, altri sono stati suggeriti: «Per capire come approcciare i tossicodipendenti ci siamo fatti insegnare da un operatore di strada», spiega Sebastiano, «Chiediamo permesso, non insistiamo con chi non ci vuole, non svegliamo chi sta dormendo: magari è l’unico momento della giornata in cui la dipendenza lo ha lasciato in pace».

Ai margini del Piraghetto i volontari trovano una coppia: «Lei è incinta, ma lui non vuole che la portiamo alla casa dell’ospitalità, perché sanno che saranno separati», spiega la ragazza che ha appena parlato con i due, «Abbiamo lasciato coperte e merendine».

A Marghera, sotto il porticato della chiesa, ai giovani del Rivolta si affianca anche una coppia della Sant’Egidio: «Hanno le bottigliette d’acqua, dobbiamo portarle anche noi», si annota Bergamaschi. Lì l’incontro assume i contorni di una festa: i ragazzi sono riconosciuti, sanno come avvicinarsi, hanno superato sia la sindrome del supereroe sia il muro del pietismo, sanno che perché il loro aiuto venga accettato devono semplicemente essere naturali. Facile solo a dirsi: il fatto che ci riescano tanto bene è la prova dei due mesi trascorsi a fare spola tra un angolo di marciapiede e l’altro.

«Si fanno grandi discussioni sulla qualità del the», ride Laura, «La prima sera, in via Piave, ce lo volevano tirare dietro».

In realtà le critiche piovono ancora, ma sono la scusa per stare assieme: in cinque, lasciate per un secondo le siringhe, si mettono a discutere se il problema sia lo zucchero o l’infuso, e tra le risate e gli sfottò qualcuno guadagna una giacca a vento, una cuffia di lana, una sciarpa. In un’altra laterale la situazione è più tesa: i ragazzi arrivano solo dopo la jeep dell’esercito e i tre stranieri appoggiati al muro si ritrovano invischiati in un battibecco con i militari.

«Perché ci guardano male?», chiede tra le lacrime nervose uno di loro, «La gente qui è cattiva: ti fotografa, ti mette su facebook, ma noi non stiamo facendo niente di male, a nessuno». Il the finisce a terra, le coperte in più non bastano a scacciare il freddo. «Poi si calma», dicono gli altri, con voci tristi.

Da un paio di settimane, alle persone con cui hanno più confidenza tra le circa cinquanta raggiunte, i volontari provano a porre una domanda:«Cosa manca in città?». Le risposte sono diverse: le case, ovviamente, la musica. «Qualcuno ci ha detto che a Mestre c’è tutto, ma non va bene niente».—

 

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