Sangue infetto, 900 mila euro al paziente

La trasfusione avvenuta nel 1972 a Dolo aveva causato l’epatite C con continue cure e il trapianto. Pagherà il Comune

DOLO. Le trasfusioni con sangue infetto, la contrazione dell’epatite C e quindi della cirrosi epatica, il trapianto di fegato per sopravvivere. Un calvario iniziato nel 1972, quando il paziente non aveva ancora 15 anni, e arrivato fino ai giorni nostri, con il trapianto nel 2011. Un calvario che ora ha avuto un riconoscimento da parte del giudice civile Silvia Barison. Il Comune di Dolo, quale successore universale dell’ospedale di Dolo (all’epoca non esistevano infatti le Usl, istituite con la legge del 1978), è stato condannato a pagare all’uomo la somma 500.278 euro oltre a interessi, spese di lite e rivalutazioni per un totale di circa 900mila euro. Nulla dovuto, invece, alla moglie dell’uomo, la quale aveva chiesto un risarcimento tenuto conto dei molti anni trascorsi ad assistere il marito.

Il paziente, che oggi ha 61 anni, si è affidato all’avvocato Enrico Cornelio. La vicenda affonda le sue origini nel settembre 1972. Il ragazzino era stato ricoverato all’ospedale di Dolo per una vasta ferita nella zona inguinale. Era stato sottoposto a un intervento per la sutura dell’arteria e quindi a una seconda operazione. «A sua memoria il paziente ricorda di essere stato trasfuso ripetutamente sia dopo il primo intervento che dopo il secondo mediante somministrazione di più di una sacca di sangue», si legge nell’atto di citazione predisposto dall’avvocato Cornelio. Nel 1975 arriva la diagnosi di epatite C con tutte le conseguenze del caso sulla vita quotidiana negli anni successivi. Nel 2007 si scopre che il paziente è affetto da cirrosi epatica. Per l’uomo iniziano anni particolarmente difficili. Riesce a salvarsi grazie a un trapianto di fegato nel 2011 e alla successiva introduzione dell’antibiotico contro l’epatite C.

«Le trasfusioni non dovevano essere eseguite in quanto trattamenti pericolosi non necessari, non essendo documentato il pericolo immediato di vita del paziente», si legge nell’atto di citazione nel quale viene evidenziato peraltro che le trasfusioni, con sangue non controllato, erano state effettuate senza il consenso dei genitori del paziente minore. Scrive il dottor Nico Zaramella nella consulenza svolta per il tribunale che «il trattamento trasfusionale in occasione del ricovero del 1972 non fu mai sostenuto sul piano clinico dallo stato di necessità, profilandosi l’ipotesi di una condotta imprudente nella gestione dei rischi trasfusionali». Lo stesso consulente ha ritenuto dimostrato il nesso causale tra le trasfusioni e il pregiudizio alla salute del paziente. La giudice sottolinea la gravità «non tanto dell’omesso controllo sulle caratteristiche degli emoderivati trasfusi, ma ancor prima dell’errata valutazione della necessità terapeutica». Quanto alla mancanza del consenso informato, la giudice evidenzia come sia questione secondaria rispetto alla carenza di necessità. «Abbiamo percorso una strada in salita ma assai più produttiva rispetto a quella dell’indennità prevista agli emotrasfusi dalla legge 201/90», spiega l’avvocato Cornelio, «Si tratta di valutare se esistevano le condizioni di indicazione e consenso al trattamento trasfusionale che devono essere documentate nella cartella clinica, portando come conseguenza alla responsabilità dell’ospedale».

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