“Roderick Duddle”

Ci sono libri impossibili da riassumere perché non succede nulla, altri perché succede troppo. Il “Roderick Duddle” (Einaudi, pp 496, 22 euro) di Michele Mari appartiene a questa seconda schiera. È per molti versi un romanzo postmoderno...

Ci sono libri impossibili da riassumere perché non succede nulla, altri perché succede troppo. Il “Roderick Duddle” (Einaudi, pp 496, 22 euro) di Michele Mari appartiene a questa seconda schiera. È per molti versi un romanzo postmoderno: gioca con le strutture narrative del feuilleton, del romanzo d’avventura, un po’ anche del giallo; contiene infiniti rimandi letterari, a partire da Dickens, con la ricerca dell’orfano con il medaglione al collo, per arrivare a Stevenson con il bambino a bordo della nave e il cattivo dai tratti simpatici come Long John Silver; si atteggia a grande narrativa ottocentesca con un narratore che più onnisciente non si può, ma gioca col lettore con la intelligenza e la grazia settecentesca e sovversiva di Sterne. E tuttavia romanzo postmoderno non è, perché è talmente impregnato dei suoi modelli, li ha talmente assorbiti, che ci si dimentica della letteratura che c’è dietro e diventa semplicemente racconto vertiginoso, con infiniti colpi di scena, viaggi e abbandoni, sorprese a ogni angolo, continui cambi di angolazione e una inarrivabile galleria di personaggi. E se Michele Mari, a partire da un piccolo gioiello come “Io venia pien d’angoscia a rimirarti”, è uno degli scrittori più raffinati della narrativa italiana, capace di una lingua desueta nel lessico, ma anche nella sintassi, in questa occasione pur non appiattendosi sulla lingua del presente trova una misura diversa, appena rivestita di una familiare patina antica, che sembra rievocare la voce dei grandi autori di riferimento: oltre a Dickens e Stevenson anche Fielding, Edgar Allan Poe, Conrad fino a Salgari che riecheggia nel nome malesiano di uno degli infiniti personaggi minori.

Argomenti:campiello 2014

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia