Robert e il dovere della lotta
«C’è una gara in atto. Quella tra chi, come Obama, pensa che il cambiamento sia inevitabile e cerca di convogliarlo nella giusta direzione e chi, invece, del cambiamento ha paura e non lo affronta».
Parole di Robert Redford che alla conferenza stampa del suo ultimo film, “The company you keep”, di cui è anche protagonista, non si lascia sfuggire l’occasione per punzecchiare il partito repubblicano, alle cui convention - sono ancora parole del regista - si parla di tutto fuorché di problemi reali, quelli che interessano davvero agli americani. La tribuna politica del democratico Redford - che, per la verità, negli ultimi tempi si era un po’ defilato dalla scena arrivando a criticare, più o meno apertamente, l’operato del presidente Obama - finisce qui. Ma, nel rispondere alle domande sul suo ultimo film presentato fuori concorso, Redford non manca di sfiorare temi scottanti, come quelli legati alla crisi economica-finanziaria, al rapporto con la stampa, alla evoluzione degli ideali rivoluzionari degli anni ’60 -’70.
“The company you keep” scava, infatti, nel passato di un uomo, Jim Grant, pacifista radicale che vive in clandestinità per essere stato coinvolto nell’omicidio di una guardia giurata all’epoca in cui faceva parte dell’organizzazione “Weather underground”, falange armata del movimento studentesco che manifestava contro la guerra in Vietnam.
L’arresto di una ex militante (Susan Sarandon) innesca un effetto domino: la copertura di Grant, così come quella di molti suoi compagni di allora, si dissolve, costringendo il protagonista a fuggire per dimostrare la sua innocenza a un giornalista tenace diviso tra ambizione e senso di giustizia (Shia LaBeouf), all’Fbi e soprattutto alla figlia.
È giusto trasformare il dissenso in violenza per affermare i propri ideali? E il radicalismo di allora è paragonabile agli attuali movimenti che lottano contro l’imperialismo economico e finanziario, che legittima ogni giorno i soprusi dei super ricchi (come denuncia la pasionaria Julie Christie, alter ego di Redford nel film)? «La violenza è l’ultima istanza» spiega Redford. «Gli ideali per cui gli studenti lottavano negli anni ’70 erano giusti ma la causa ha finito per divorarli. Nella realtà attuale, movimenti come “Occupy Wall Street” si battono per altri obiettivi, anch’essi condivisibili. Tuttavia oggi nessuno ti costringe a imbracciare un fucile e sparare in mezzo alla foresta vietnamita. Non c’è la stessa posta in gioco anche se ogni generazione ha il dovere di reagire alle ingiustizie della società».
“The company you keep”, però, non è propriamente un film politico. C’è una componente estremamente umana nella vicenda di Jim Grant: è la storia di ciò che è disposto a fare un padre per amore della propria figlia. «Mi sono ispirato a “Les Misarables”» continua Redford. «Ero molto attratto dagli sforzi di un padre che si mette in gioco dopo trent’anni perché la figlia conosca la verità e non debba mai vergognarsi di lui nel futuro». Un thriller robusto che rispetta tutti i canoni del genere, senza eccedere nell’azione che poco si confà all’età dei protagonisti. Scelta molto saggia fino alla “virata finale” di un epilogo forse un tantino frettoloso che, però, non toglie nulla alla solidità del film.
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