Renata, una vita a Marghera con la laguna nel cuore

Nata a Cannaregio, cresciuta in orfanatrofio, si è poi trasferita in terraferma. Come migliaia di veneziani ha conosciuto lo sradicamento e il lavoro in fabbrica

MARGHERA. Renata è la memoria vivente dell’esodo da Venezia che a decine di migliaia hanno affrontato nel dopoguerra. Grazie a loro nacquero un po' alla volta, così come li conosciamo oggi, i quartieri urbani di Marghera, di Mestre e più in generale di gran parte della terraferma veneziana.

Solo nel decennio fra il 1950 e 1960 furono ben 11.200 i veneziani che lasciarono Venezia. L'esodo della popolazione più povera, quella priva di reddito che viveva in baracche malsane e che si sfavama nelle mense pubbliche, era iniziato già dal 1926, con la liberalizzazione dei fitti. Nel dopoguerra, poi, le condizioni economiche si aggravarono ulteriormente. Una stima esatta di quanti abbiano lasciato Venezia per Marghera negli anni è difficile farla. Ma mentre Mestre e Marghera in pochi anni passavano da 80.000 a ben 200.000 abitanti, la popolazione del centro storico veneziano scendeva da 190.000 a 120.000 abitanti. Ad andarsene erano soprattutto i più giovani e i nuovi nuclei famigliari.

Renata Di Giulio è arrivata a Marghera già adulta, dopo il matrimonio. Ha sposato un profugo giuliano-dalmata, il figlio di un ex militare fuggito dalla Jugoslavia di Tito. Venivano da Zara, che Renata ricorda con affetto come “una piccola Venezia in scatola”, cresciuta lei, nella città d'acqua per eccellenza, settima si sette fratelli, a giocare a campanon, fra il ponte delle Guglie e l'inizio di Strada Nuova.

Morto il padre quando aveva poco più di 15 mesi, Renata si abituò fin da subito a vivere una vita povera ma gioiosa. Ad appena cinque anni, fu affidata al collegio del Buon Pastore. «Furono anni intensi. Non posso dire di esserci stata né bene né male». C'era la guerra, l'occupazione tedesca, e a causa dei bombardamenti il collegio si spostò in una villa privata di Sant’Elena di Spinea, messa a disposizione delle monache dalla famiglia Barbini.

«Qui», ricorda Renata, «vivemmo dei momenti di vero terrore. Una volta, andando a messa, incrociammo una pattuglia di tedeschi a presidio di un ponte e uno di loro chiese agli altri “Facciamo tappeto?” L'altro scosse la testa: “Sono solo bambini” disse, e così fummo salvi. La seconda volta la madre superiora mi mise nel suo letto e mi disse di fingere di avere una gran febbre».

Terminata la guerra tornò a Cannaregio, con la madre e coi fratelli. Aprirono un banco di frutta e verdura ai Gesuiti, poi lei imparò il mestiere della sarta. Un giorno conobbe quello che sarebbe diventato suo marito, si fidanzò, e andò a lavorare come fabbricatrice di perle per una ditta di Murano. Fece questo per 9 anni, senza contratto e senza assicurazione. Per questo motivo, oggi, non può contare sulla pensione.

Poi si trasferì a Marghera, in una casa che il Comune aveva dato ai suoceri, in quanto profughi di guerra dalla Dalmazia. Tra le colleghe era una delle poche a saper leggere. «Mi chiedevano di scrivere lettere ai fidanzati, marinai che viaggiavano sempre. Nelle lettere ero più appassionata di quanto lo fossero loro realmente, ma per fortuna si sposarono lo stesso». La casa di Marghera le piaceva. «Non era grande, ma in una zona nuova, di fronte a delle grandi vasche rotonde lunghe 3 metri e alte 2, le “vaschette” appunto. D'estate era divertente perché si poteva fare il bagno, cosa che a noi piaceva molto. Alcuni dicevano che era pericoloso, ma considerato come sono cresciuti i miei figli, direi che l'acqua fosse buona».

Nostalgia di Venezia? Certo, sempre. Ma alle Vaschette Renata ha vissuto dal '56 fino a pochi anni fa. «Lì ho cresciuto i miei figli, ho accudito i suoceri, sono diventata vedova. Lì ho anche assistito a diverse scorribande e alle incursioni della polizia per causa dei vicini, diciamo, non proprio tranquilli». Alla fine i figli hanno deciso di portarla via. «Mi sono trasferita in via Nicolodi, più in centro, e infine in un alloggio Ater in via Varè».

Dopo tutto ciò che ha affrontato, vita finalmente Renata qui può dirsi felice. Ha molti nipoti che la vengono a trovare ogni giorno, ha cinque figli che le vogliono bene. Per i suoi 80 anni, compiuti in estate, l'hanno portata a mangiare al Burchiello, il ristorante preferito del marito.

«Devo tutto ai miei figli. Sono la gioia della mia vita. Se non ho avuto molto, in termini di ricchezze materiali, ho sicuramente avuto tanto per quel che riguarda gli affetti. E, fidatevi, questo davvero basta a vivere una vita felice».

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