Quel giorno disse: «La parola fine la scrivo io»

Uno sberleffo al Fato con la vertigine dell'ultimo volo
VENEZIA. Nell'intervista che gli avevo fatto, nell'estate del 2009, in occasione del restauro de La Grande Guerra una cosa, tra le tante simpatiche e vitali che mi aveva detto, mi aveva colpito: «e comunque alla mia vita la parola fine la scrivo io». Non ricordo come si fosse arrivati a questo, ma ricordo di averla collocata all'interno del personaggio anarchico e sanguigno, toscano di Viareggio. Oggi è chiaro quale fosse il significato della battuta.


Monicelli se n'è andato con uno sberleffo finale al Fato, una zingarata degna di uno dei protagonisti di Amici miei: non potendo evitare le fine, almeno decidiamo noi come e quando. Perché invece la vita l'ha amata, e molto, l'autore dei Soliti ignoti, di Guardie e ladri, dell'Armata Brancaleone, ma anche di film ingiustamente considerato minori e invece alti e profondi come Un borghese piccolo piccolo, Speriamo che sia femmina: da ognuno di essi traspariva una capacità di lettura della realtà italiana degna del miglior storico. Da questo punto di vista, e assieme ad altri grandi maestri della commedia all'italiana - da Comencini a Dino Risi - e pur nella sua graffiante specificità, Monicelli ha lasciato delle pietre miliari per sensibilità descrittiva, attenzione ai temi sociali di un'Italia che stentava a rialzarsi, parodia del malcostume su cui il paese del boom avrebbe edificato la sua prosperità di facciata.


A differenza della cattiveria o dell'angosciante cinismo dei personaggi di Risi, ad esempio, quelli di Monicelli sono sempre e comunque dei perdenti, dei poveri diavoli, siano Guardie e ladri, che alla fine o nel corso del film, fanno sempre i conti con la morte, drammatica e violenta. Per questo la sua fine se l'era scritta.

E se I soliti ignoti (1957) cambia completamente il volto della commedia, anche fuori d'Italia (per l'irruzione della morte e del dramma nel registro comico, per l'inserimento della critica di costume che faceva diventare realista anche la più facile ironia), è La Grande Guerra il film che più d'ogni altro ha marcato successo (Leone d'oro 1958 ex-aequo con Il generale Della Rovere) e descrizione d'insieme: la prima guerra mondiale come grande momento d'aggregazione, di presa di coscienza delle classi subalterne non era solo la trasposizione di una tesi storiografica. I diversi personaggi che Monicelli piazzò in trincea erano lo specchio, per la prima volta, dell'Italia unita, c'erano le tipologie regionali prima che diventassero luoghi comuni, c'era soprattutto molto Veneto - nelle location e negli attori, nell'immaginario nazionale e nella sua raffigurazione - c'era il tentativo di scapolarla, costume nazionale, e la decisione di morire con dignità.


Come il Gassman di Busacca Giovanni, deve aver pensato che di fronte al plotone d'esecuzione dell'esistenza tanto valeva andarsene con un ultimo sberleffo, e che la vertigine di una vita vissuta sino in fondo, gli permetteva davvero un ultimo volo. E forse anche questo è un modo per riderci su.

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