"Quel giorno di Natale"

La malattia improvvisa che rimette in discussione tutto e, poi, la riappacificazione

Il luminoso mattino prometteva una giornata radiosa. Ero anche contento di essere solo in casa.

Caricata sullo stereo una melodia di Rubinstein, mi accingevo a scrivere col computer alcuni pensieri per il mio amico Piero che, giusto il giorno prima, avevo accompagnato al cimitero. Piero, dalla vita tribolata, era per me come un fratello, era di casa da noi e chiamava mamma la mia stessa mamma.

Ero ancora in piedi quando, all’improvviso, entrambi gli occhi si fecero cocenti come colpiti da un lampo. Cosciente che qualcosa stava per accadere, mi spostai rapido accanto al vicino tavolo, vi poggiai entrambe le mani e rimasi in attesa. Un attimo ancora e, sul lato destro, gamba e braccio cedettero insieme, come fatti di tenera gomma. Raggiunsi a fatica il divano e afferrai il cellulare che era lì accanto, per avvisare mia moglie. Le dita, ormai gonfie come tutta la mano, però, non erano in grado di battere i giusti tasti. Riuscii a trattenere il telefonino con la destra, a fare i numeri con la sinistra e, con la bocca impastata, a far capire di essere in difficoltà. Nell’attesa di essere soccorso, inondato da un bagno di freddo sudore, lottai contro il mio stomaco che sembrava un vulcano in eruzione. Dopo una decina di minuti interminabili, sentii suonare il campanello di casa e la voce di mio figlio che, anche battendo la porta, chiedeva di aprirgli. Non fu facile strisciare fino a quella benedetta maniglia! Assieme a mio figlio arrivò un’ambulanza e, lesti, gli infermieri mi caricarono sul lettino, mentre la mia gamba sussultava incontenibile.

Ormai immobile sul letto dell’ospedale da qualche settimana, lottai e dialogai mutamente contro il mio Dio che, a braccia aperte, dominava la mia stanza dall’alto della linda parete dirimpetto. Perché proprio io? Non bastava la mia triste infanzia? Ma, giorno dopo giorno, guardandomi attorno, capii che una malattia può capitare a chiunque e, rappacificato con Lui e col suo aiuto, decisi di lottare con tutta la forza della mia mente, ai cui comandi il corpo si rifiutava di rispondere. E la diagnosi del Primario fu che non ci sarebbero stati progressi.

Il Natale era imminente quando i miei cari mi fecero trasferire in una Casa di Cura, dove fui assistito con rara attenzione. Le festose luminarie adornavano le salette d’attesa, e addolcivano la mia mestizia.

E fu qui che il giorno di Natale, mentre giacevo sempre rigido sul mio letto, accadde l’episodio che diede una svolta al mio percorso di malato. Nel brusio classico di un reparto in piena attività, continuavo a comandare mentalmente i miei arti come tutti i giorni, inutilmente.

D’improvviso un silenzio assoluto. Sul pavimento, affiancata al mio letto e della sua stessa grandezza, apparve una luce bianchissima, attorniata da pareti cristalline, anch’esse con sfumature luminose, intense e indescrivibili con parole o esempi e realistici. Il mio corpo vagava, sospeso e solo, in un’atmosfera irreale, di beatitudine, inimmaginabile. Non saprei dire se durò poco o tanto, e io mi ritrovai nel mio letto, tra il brusio solito, con la gamba che, senza nessun mio comando, si piegava come sempre aveva fatto. Gesù era nato, e io mi sentivo rinascere col rifiorire della Fede poco prima vacillante. Certo, quando mi mettevano in piedi, la gamba svolazzava come una bandiera, ma l’inizio della ripresa e della speranza era nata, sorretta da una decisa volontà. Quello giorno fu il più bel Natale della mia vita.

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