Quattro colpi di pistola per uccidere i due amici
VENEZIA. Cinque ore prima dell’uccisione del giudecchino Ivano Gritti, alle 20.15 dell’8 gennaio una persona con accento meridionale che non si presenta con nome e cognome telefona al numero di soccorso 112-113 e riferisce della presenza di una persona armata nell’abitazione a San Polo 3078/h. È la casa dove abita Ciro Esposito, il napoletano trapiantato in laguna che da quella notte è in carcere a Santa Maria Maggiore con le accuse di omicidio e detenzione di arma clandestina. Subito dopo la chiamata, una pattuglia viene inviata sul posto, ma nulla di anomalo viene rilevato. «Ma se si sospetta che sia stato Esposito a chiedere il soccorso perché minacciato, diviene difficile pensare che quanto accaduto successivamente trovi la sua ragione in una contesa per un cane», scrive il gip Massimo Vicinanza nell’ordinanza con cui ha confermato il carcere per Esposito.
Ciro aveva paura di qualcuno? Lo ha raccontato l’indagato nell’interrogatorio subito dopo l’arresto alla pm Patrizia Ciccarese, titolare delle indagini. «L’indagato si sarebbe spaventato perché temeva una ritorsione da parte della sua ex fidanzata, che l’aveva minacciato quando lui aveva deciso di lasciarla», annota il gip che però ritiene questa versione non verosimile.
Quattro colpi. Esposito ha più volte ribadito di non aver voluto uccidere, ma solo spaventare con i colpi esplosi con quella pistola calibro 9 con matricola abrasa, che lo stesso omicida ha detto di avere in custodia da qualche giorno. Ma dalle foto della porta a vetri che separava Esposito da Gritti risultano quattro fori, di cui almeno tre ad altezza testa o corpo. Quattro anche i bossoli a terra. Un proiettile aveva colpito Ivano alla testa, appena sotto all’occhio, causandone il decesso un paio di ore dopo. Un altro colpo aveva sfiorato Christopher Rath che poi aveva raccontato di aver udito distintamente il fischio dello sparo. Mentre era ancora sul luogo del delitto, come riportato nell’ordinanza, «Esposito affermava che aveva sparato all’amico Gritti e che se avesse avuto indietro la pistola “avrebbe ammazzato anche il negretto che era con lui” (il riferimento è a Rath, di carnagione scura, ndr». Una frase, questa, che in sede di interrogatorio Esposito ha negato.
Il giorno del delitto. A ricostruire davanti agli inquirenti la giornata dell’8 gennaio è stato il terzo uomo, Christopher, trovato la mattina dopo il delitto a casa della convivente della vittima. Nel pomeriggio dell’8, Christopher e Gritti erano nella casa di quest’ultimo alla Giudecca. Poi era arrivato anche Esposito. Tra Gritti ed Esposito c’era una questione irrisolta di un cane che era stato regalato a Ciro e che però, stando a quanto sostenuto da Ivano e dalla sua compagna, il napoletano non era in grado di accudire. Gritti aveva quindi intimato ad Esposito di riportargli il cane, invano. Gritti quindi aveva prima telefonato a Ciro per dirgli che sarebbe andato a prendere il cane, poi era andato a casa di Esposito. Gritti, secondo la ricostruzione di Christopher, aveva bussato più volte, invitando Ciro ad aprire. «Un serrato confronto verbale», lo definisce il giudice. «Ciro aveva invitato Ivano ad andarsene, ma questi aveva insistito che voleva il cane. Per tutta risposta, dopo aver detto “ancora?”, Esposito aveva sparato, colpendo Gritti al volto. All’arrivo dei carabinieri, Ciro si era presentato con la pistola nella mano destra e una bottiglia nella sinistra, gridando “Ah mio fratello!”. Christopher si era allontanato per tornare poco dopo. Constatato che l’amico era vivo, se ne era andato di nuovo per raggiungere una cabina e chiamare il 118.
«Capace di ogni nefandezza». «Sebbene non sia chiaro il motivo per il quale Esposito abbia sparato, è certo che il colpo è stato indirizzato da distanza molto ravvicinata, quasi a bruciapelo», scrive il gip chiarendo che Esposito conosceva bene la voce di Gritti e che quindi è molto improbabile che non l’avesse riconosciuta quella notte. «Esposito ha volontariamente ucciso Gritti ben sapendo che questi era fuori dalla sia porta per reclamare qualcosa», conclude il giudice evidenziando che l’indagato «ha compiuto un gesto così grave con una leggerezza assoluta ed è quindi in grado, assente in lui ogni freno inibitorio, di compiere qualsiasi nefandezza».
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