PUNTURINE / La foca se ne è andata senza farsi fotografare
VENEZIA. «Scusate se me ne sono andata via così. In fretta e furia, senza salutare. Senza farmi fotografare. Nemmeno filmare. Senza lasciarmi intervistare. Senza essere andata alle feste dove pure mi avevano invitata. Il Redentore no, quello l’ho visto, stavo bella quieta nel Canal dell’Orfanello, nascosta dietro una bricola, i fuochi mi hanno spaventata un po’, ma mi sono piaciuti tantissimo. Poi ho dovuto andare via. Mi spiace, non ce la facevo più. Non ne potevo proprio più». Comincia così la lettera che la foca di Venezia ha lasciato ai veneziani. L’ha trovata Tino spassìn nel suo giro del mattino in campo San Pantalon, vicino alla tabella di pietra che indica le lunghezze minime consentite dei pesci messi in vendita al mercato. Era scritta su una carta lucida, pergamenata, con una grafia minuscola e irregolare, dentro una busta verdognola fatta di qualcosa che sembrava alghe. E raccontava le peripezie che le erano accadute da quando aveva deciso di coronare il suo sogno: visitare Venezia.
La prima disavventura, non ancora entrata in città, alla bocca di porto di San Nicolò, mentre nuotava sul dorso facendo mille giravolte, felice come una pasqua. All’improvviso sentì un gran risucchio e per poco non finì sbriciolata dalle pale di un’elica gigantesca che apparteneva a una grande nave da crociera in arrivo. «Non mi ero ancora ripresa dal terribile spavento quando sentii una gran botta al fondo schiena, come una tremenda sculacciata. Mentre volavo via, a decine di metri di distanza, feci appena in tempo a vedere, con la coda dell’occhio, che si trattava di una specie di padellone che si dimenava furiosamente a pelo d’acqua. Gli uomini che mi raccolsero, e che volevano vendermi a un parco acquatico di Jesolo, furono molto gentili: mi offrirono una borsa piena di pesce freschissimo purché non andassi in giro a dire che quella paratoia –così mi dissero che si chiamava il padellone- si era messa in moto da sola».
Niente in confronto a quello che le capitò in bacino San Marco, dove fu presa al lazo dal gabbiere di una nave pirata - almeno sembrava tale- che pretendeva che lei nuotasse intorno alla chiglia, legata a una corda, tenendo in equilibrio sul naso piatti, bicchieri e palline, per far divertire gli ospiti che aveva a bordo. «Riuscii a fuggire grazie a un vecchio trucco, ma la mia libertà durò poco, perché appena entrai in Canal Grande venni colpita alla testa - ho ancora il bozzo- dal remo di una gondola durante una battaglia tra gondolieri e turisti, e mi ritrovai nell’olezzante cucina di un ristorante cinese dove un cuoco con la faccia da pesse paiasso pretendeva di cucinarmi: in umido con la polenta. Lo minacciai con un coltellaccio e corsi fuori».
Una scia di profumo irresistibile portò la foca al mercato del pesce di Rialto. «Lì avrei trovato qualcosa di buono, anzi di buonissimo, da mettere sotto i denti, pensavo». Si sbagliava ancora una volta. Perché quando i pescivendoli la videro arrivare dal rio, si affrettarono a cercare di pescarla in tutti i modi - con ami, con lenze, con reti, con fiocine, con fucili e bombe a mano - per metterla in vendita insieme ai folpi e agli otregani. «Questa costerà anche più del bisato», sentì uno che gridava.
Non ce la faceva davvero più. Quando l’acqua si avvelenò e tutti i pesci le morirono intorno, decise di partire. Di tornare al suo scoglio di Lussino. «Venezia è bellissima, nonostante tutto», scrive. «Un giorno forse, chissà, ci rivedremo. Ma non chiamatemi Pryntyl, sembra il nome di un lucido da scarpe. Datemi un nome più bello, più veneziano. Come Lucrezia, la scrittrice Lucrezia Marinelli, ecco, si può dire che fu la prima femminista. Venne sepolta proprio a San Pantalon. Lucrezia, la foca di Venezia. Suona bene, no?».
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