Processo d’appello al “clan dei Casalesi di Eraclea”: «Un’associazione di stampo mafioso»
Udienza fiume in aula bunker. Il pm Terzo contesta le decisioni dei giudici di primo grado: «Ristabilire la verità dei fatti»
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Un’udienza fiume, quella di giovedì 20 febbraio in aula bunker per il processo d’appello al “clan dei Casalesi di Eraclea”. In mattinata il pubblico ministero Roberto Terzo ha parlato quattro ore per chiedere alla Corte di riconoscere che di mafia si è trattato nel caso del gruppo guidato da Luciano Donadio e Raffaele Buonanno, usando parole molto dure contro il Tribunale di Venezia, presieduto di Stefano Manduzio, che in primo grado aveva riconosciuto che il “clan” era sì un’organizzazione criminale pericolosa, che talvolta aveva utilizzato metodi mafiosi, ma non un’associazione di stampo mafioso.
Nel pomeriggio è stata la pm Federica Baccaglini a parlare altrettanto, per chiedere la condanna a 4 anni di reclusione dell’ex sindaco di Eraclea Mirco Mestre (assolto in primo grado con formula piena dall’accusa di voto di scambio) e a 6 anni di Emanuele Zamuner, il carrozziere che secondo l’accusa avrebbe raccolto i voti di Donadio a favore di Mestre.
Molto duro - si diceva - il giudizio nei confronti del Tribunale di primo grado espresso per la Procura dal pm Roberto Terzo, riassunto nel finale di requisitoria nel chiedere che il “clan dei casalesi di Eraclea” venga riconosciuto come una mafia: «Un sodalizio che commette 60 reati individuali e impone la sua volontà, che si misura con i Casalesi di Casal di Principe e la Mala del Brenta, che genera intimidazione e assoggettamento: abbiamo il doppio degli elementi richiesti dalla giurisprudenza per affermare la sussistenza del 416 bis. La nomea di appartenenti ai Casalesi non si può spendere impunemente e Donadio lo sa bene e il gruppo si presentava come “i casalesi di Eraclea”», ha detto il pm, «tutti elementi omessi completamente nella sentenza, come le dichiarazioni fatte in aula dagli ufficiali di polizia giudiziaria che hanno fatto le indagini (...) e sono venuti qui a testimoniare di aver ravvisato tutti i crismi di un’associazione mafiosa: attentati, armi, prevaricazione, assenza di denunce, accoglienza di latitanti».
«C’è stata una macroscopica violazione di legge del Tribunale», insiste Terzo, «che ha rifiutato di utilizzare le conclusioni della sentenza definitiva della Cassazione». Quella che ha riconosciuto nei “casalesi di Eraclea” una mafia, nel processo agli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, compreso l’ex sindaco Graziano Teso (condannato per favoreggiamento). Il pm Terzo è andato diretto nel “criticare” i giudici di primo grado, che pure hanno condannato a pene molto pesanti - tra gli altri imputati - Luciano Donadio (26 anni) e Raffaele Buonanno (19).
«Non ci interessa aumentare le pene, ma che venga affermata la realtà dei fatti», ha proseguito Terzo, «il Tribunale ha fatto una scelta pregiudiziale delle prove, traendo erronee argomentazioni: la confederazione del “clan dei casalesi” aveva il libro mastro, la cassa comune finanziata da tutti i rami di attività per le armi, pe ri detenuti. È irrealistico, ingiustificato affermare che non si sia trattato di un’associazione di stampo mafioso. Le difese diranno che non c’è stata formale affiliazione, ma questa è una descrizione della mafia di 80 anni fa: usciamo dai miti televisivi del rituale».
Nel pomeriggio parola alla pm Federica Baccaglini che ha chiesto la condanna a 4 anni per l’ex sindaco Mirco Mestre (con le attenuanti generiche), assolto dal Tribunale, ma ora accusato nuovamente dalla Procura di aver ottenuto voti da Donadio, in cambio di favori, come l’interessamento per un progetto per un impianto di biogas a Stretti.
Interrogato nelle scorse udienze, Mestre ha escluso qualsiasi favore, dicendo di conoscere Donadio lo perché è stato suo avvocato in alcune cause civili. Per la Procura, Emanuele Zamuner - che si occupò della campagna elettorale nel 2016 - aveva preso contatti con Donadio, ottenendo un’ottantina di voti. Per lui la Procura ha chiesto 6 anni.
Si tratta delle parole dell’accusa, non della sentenza.
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