Prima della partenza dall’Italia ingrata

La nostra storia: noi emigranti. Personaggi forti, sentimenti intensi, fame e vita grama, derelitti e prepotenti. Gianni Favarato scrive un romanzo che è autocoscienza

MESTRE. Più di tre milioni e mezzo di persone sono emigrate da quelle che allora si chiamavano le tre Venezie tra la seconda metà dell’800 e i primi anni del ’900. Solo dal Veneto, fino alla seconda metà del ’900 se ne sono andati in quasi quattro milioni. Attualmente, nel mondo vi sono più persone di origine veneta di quante ne vivano nella regione. La prima emigrazione impoverì di risorse umane una terra che era poverissima di risorse economiche e perfino di speranze. La vita si trascinava nella fatica e nella carenza, specialmente nelle campagne dove viveva la grande maggioranza della popolazione. Alla povertà e al corollario di stenti, malattie e difficoltà di ogni genere che sempre vi si accompagna, si univa l’assenza di speranza. Le lotte contadine e le prime esperienze sindacali, la stessa nascita del socialismo moderno e delle prime forme di cattolicesimo sociale, non riuscivano a motivare un solido e duraturo sentimento di fiducia nel futuro anche quando - peraltro raramente - consentivano di raggiungere qualche concreto risultato materiale sul momento. L’emigrazione, la risorsa che da sempre apre scenari nuovi all’esperienza umana, e anche all'umana speranza, si presentò come un’opportunità a cui moltissimi si rivolsero come alla sola possibilità di sfuggire alla vita grama.

Furono milioni a partire, e andarono lontano, soprattutto nelle Americhe. Gianni Favarato con questo intenso e accurato romanzo (“Addio Italia”, Mazzanti Libri, p.255, 14 euro) racconta l’epopea di quell’esperienza sconvolgente (sia per chi partiva che per chi restava, che restava più solo e più debole). “Addio Italia” è un romanzo di originale sostanza. È certo un romanzo storico, come si è detto, ambientato nell'estate del 1889, “torbida e calda” come la notte in cui la storia incomincia. Tuttavia è pure un romanzo-romanzo, con i personaggi forti che una storia simile deve avere, e con i sentimenti intensi (che narra e che suscita), con le trame complesse di una storia corale, che presuppone i cicli delle generazioni e le onde del tempo così come il peso degli eventi della Storia e l’incalzare degli episodi che avvengono nel microcosmo (un piccolo paese tra campagna veneta e laguna di Venezia, l’immaginaria Porto Casale descritta benissimo come se fosse ritratta dal vero).

Ci sono i vinti di sempre, destinati qui a perire non sul mare come i Malavoglia bensì negli stenti e nella crudezza di una servitù della gleba che di fatto perdura da secoli, in forme diverse, e che di lì a poco saranno inviati a morire nelle trincee della Grande Guerra e nelle scellerate e infami avventure coloniali. Ci sono i prepotenti, che hanno potere e ricchezza, e si prendono tutto, che insidiano e predano le donne (come il laido Strangolini) e umiliano e schiacciano gli uomini. Ci sono i giovani senza futuro («Prego per loro, che non facciano la nostra fine» dice un personaggio pensando ai propri figli), e i vecchi ai quali è stata ingrata l’esistenza. E c’è l’Italia neonata, non ancora uno Stato e nemmeno un paese, forse ancora solo un sentimento, e contrastata, nel cuore, dal mito della Repubblica Serenissima, come nella coscienza dall’antistatalismo della Chiesa ispiratrice di molte anime alle quali fornisce un alfabeto e un tessuto emotivo. E ci sono gli idealisti, come il maestro Enrico D’Agostini («Leggete un libro, fino all'ultima pagina, questo sì che vi può aiutare nella vita», ripete ai ragazzi che frequentano la usa povera ma motivatissima scuola), e poi gli esempi di una nuova Italia possibile che però stenta a farsi apprezzare, che ci mette troppo tempo a formarsi, troppo per le vite spesso brevi e sempre dure delle classi subalterne, del popolo delle campagne e delle prime plebi urbane, del primo proletariato prodotto dall’embrionale industrializzazione. I banditori (come l’oriundo mulatto Gioa Allegria) che portano la notizia di un continente al di là dell'oceano in cui c’è terra e lavoro per tutti, contrastati da chi teme di non aver più forza lavoro a buon mercato da sfruttare, sembrano gli angeli che annunciano la lieta novella.

A volte non sono che imbroglioni, come scopriranno, dopo il lungo viaggio per mare, i migranti. La Merica, o il Brasile meta di tantissimi veneti, non sono il Paese di Cuccagna. Però, in questa a volte straziata rottura con le proprie radici, si apre una prospettiva, la vita riparte, ricomincia. Favarato si arresta alla vigilia della partenza, ma evoca questo sviluppo dei personaggi di cui, in modo convincente e coinvolgente, ha narrato le sorti fino all’alba del fatale distacco dal suolo natio e, con esso, evoca il passato il futuro e il presente di tutti i migranti di tutte le epoche. È un bellissimo romanzo storico, Addio Italia, ma nel senso che è della storia di sempre che ci parla, compresa quella di oggi. Lo fa in una lingua sobria, nella quale vibra però la passione conoscitiva rivolta a quei lontani orizzonti che Favarato ha rivelato anche in altre opere (Amazzonia Labirinto Verde, Giunti, 1993) e soprattutto in tutto il suo lavoro di giornalista, come dimostrano l'interesse che il libro ha suscitato di recente proprio in Brasile dove è stato presentato a Rio de Janeiro e a San Paolo all’Istituto Italiano di Cultura, al Consolato Generale d’Italia e in due scuole italiane. L’esortazione è superflua, perché il romanzo si fa leggere da solo, ma è giusto ripetere al suo proposito quanto dice in queste pagine il valoroso maestro D’Agostini: “leggete questo libro fino all'ultima pagina”.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia