Pensioni, le donne sempre più povere

Lo Spi-Cgil denuncia la forte discriminazione: «35 mila veneziane hanno bisogno di un’integrazione per sopravvivere»

Pensionati sì, ma comunque poveri. Tanto da aver diritto ad un’integrazione della loro pensione minima di 501 euro mensili, somma insufficiente a garantire il minimo vitale. Nel Veneziano sono oltre 40 mila, esattamente 40.635 sommando uomini e donne, su un totale di 256.790 pensioni erogate dall’Inps (escluse le gestioni pubbliche ed ex Enpals) dei quali ben l’86,5 per cento sono donne.

Una donna su tre. Nella nostra provincia - come documentano i dati dell’Inps elaborati dal sindacato dei pensionati (Spi) della Cgil - 35.164 pensionate donne (una su tre) ricevono il trattamento minimo che nel 2016 è di 501 euro e 89 centesimi al mese, distribuiti dallo Stato attraverso l’Inps. Si tratta, obiettivamente, di un assegno previdenziale talmente basso da impedire un’esistenza dignitosa, ancor più in un’età avanzata in cui si ha più bisogno di assistenza sanitaria e sostegno sociale. Non va così per gli uomini, o meglio per loro il misero trattamento minimo i 501 euro riguarda solo 5.471 pensionati maschi residenti nella provincia di Venezia, pari al 13,5% che corrisponde a una pensione minima ogni venti erogate.

Un esercito di poveri. Si tratta, nel caso veneziano, di una media di pensionati poveri (uomini e donne) del 15,8% sul totale dei pensionati, inferiore a quella regionale (18%) ma rilevante dal punto di vista sociale, visto che si tratta di anziani con più rischi sanitari e spesso soli. Del resto basta guardare il crescente numero di anziani poveri assistiti da parrocchie, associazioni, fondazioni laiche e cattoliche di volontari e anche da enti privati o dai Comuni di residenza che non sempre, però, sono in grado di garantire un effettivo servizio di sostegno a chi che ne avrebbero bisogno o come sta succedendo anche a Venezia con la privatizzazione del servizio e i tagli dell’assistenza domiciliare ai non autosufficienti.

Il caso veneziano. Ad essere precisi, in provincia di Venezia la percentuale di donne con il trattamento pensionistico minimo è l’86,5% rispetto alla media regionale dell’87,08% (ovvero 231.894 femmine al minimo e 34.3912 maschi).

«È vero, in generale le pensioni nella nostra provincia sono leggermente più alte rispetto agli altri territori del Veneto», sottolinea Angiola Tiboni, segretaria generale dello Spi-Cgil di Venezia, «ma la situazione delle nostre pensionate è anche qui davvero molto difficile. Non per niente anche nel nostro territorio stiamo portando avanti la campagna sui diritti non espressi che vede interessate molte donne. Vengono contattate dagli operatori dello Spi che si mettono a disposizione per controllare e verificare le loro buste paga e individuare eventuali benefici come l’integrazione al minimo, ma anche la 14ª, il sostegno al nucleo familiare, che devono essere richiesti all’Inps ma di cui spesso il pensionato non sa di aver diritto».

Lo Spi-Cgil veneziano ha già consultato quasi 3 mila pensionati e pensionate iscritti al loro sindacato, scoprendo che ben il 28% di loro aveva diritto (ma non ha mai presentato domanda) a prestazioni aggiuntive che in media comportano un aumento da 30 a 120 euro mensili e un recupero di arretrati per un totale che va dai 1.500 ai 6.000 euro.

Appello alla Regione. «Le differenze di reddito esistenti fra pensionate e pensionati sono emblematiche», dice Rita Turati, segretaria generale dello Spi- Cgil del Veneto. «Prendiamo le pensioni di vecchiaia, che rappresentano le metà delle pensioni erogate nel Veneto: l’importo dell’assegno medio degli uomini è di circa 1.490 euro, contro i 708 euro delle donne. Per questo una delle nostre principali battaglie anche a livello regionale sarà proprio di convincere il presidente Zaia e le forze politiche che è necessario dare alle pensionate quella dignità che attualmente non può essere garantita da assegni così bassi rispetto a quelli degli uomini».

Lo Spi-Cgil Veneto chiede, infatti «il riconoscimento del lavoro di cura» in quanto «le responsabilità familiari non sono condivise tra uomo e donna e i servizi per loro non ci sono o sono troppo cari. Spesso quindi le donne per motivi familiari sono costrette ad interrompere la loro carriera lavorativa o a chiedere una riduzione d’orario. Da questo nasce il successivo gap salariale fra i pensionati e le pensionate. In più la prospettiva di vita delle donne è un po’ più lunga rispetto agli uomini e quindi molte pensionate campano con l’assegno di reversibilità molte volte insufficiente a garantire una vita dignitosa».

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