Otto anni di lavori tra progetti e ricorsi Il nemico fu la fretta

di Enrico Tantucci
Quasi otto anni. Questo il tempo che è trascorso dal rogo che il 29 gennaio 1996 cancellò in una notte uno dei simboli di Venezia e della lirica nel mondo e la riconsegna del Teatro La Fenice ricostruito alla città, l’8 dicembre 2003 per una settimana di eventi inaugurali. Anche se, perché la Fenice torni effettivamente ai veneziani, bisognò poi aspettare ancora un altro anno, per collaudare la nuova “macchina”: il novembre del 2004, naturalmente con il debutto della “Traviata” verdiana, come avvenne storicamente anche per la sua prima rappresentazione. Un’eternità, un cantiere infinito. Eppure oggi quel teatro ricostruito “com’era e dov’era”, che di autentico ha ormai di fatto solo la facciata esterna, scampata alle fiamme, e dove tutto - dalle decorazioni pittoriche, agli stucchi, ai pavimenti alla veneziana in cemento - è solo un’imitazione, più o meno riuscita, dell’originale, ha però trovato una nuova vita. Spettacoli praticamente sempre esauriti, con un pubblico fatto ormai per più dell’80 per cento da turisti stranieri. Lunghe code quotidiane per visitarlo - facendone uno dei “musei” più frequentati della città - nonostante la finzione di cui è avvolta. Perché l’immagine mediatica e drammatica di quel teatro corroso dalle fiamme nel cuore di una città come Venezia - da sempre legata al mito della sua fragilità - “bucò” al tempo gli schermi di milioni e milioni di persone in tutto il mondo, rendendo celebre ovunque la Fenice e l’idea che dovesse al più presto risorgere dalle sue ceneri, come il fiabesco uccello, celebre ovunque. E l’effetto dura ancora.
Ma rivisitando in una rapida carrellata quegli otto anni di tribolazioni edilizie, di alternarsi di momenti di esaltazione ad altri di sconforto - con l’idea diffusa a un certo punto che il cantiere della ricostruzione del teatro fosse ormai un groviglio tecnico e giuridico inestricabile - la fretta appare, paradossalmente, la prima causa dei ritardi accumulati, sull’onda dell’emozione del momento, della mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, del pronto intervento, in questo caso, del Governo che, sotto la spinta dell’allora ministro ai Beni Culturali Antonio Paolucci, stanziò subito i fondi necessari per l’opera. Il motto “com’era e dov’era”, subito lanciato dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari fece presa sull’opinione pubblica e convinse tutti (o quasi) che fosse possibile rifare rapidamente il teatro tale e quale, senza grossi problemi per il progetto-fotocopia.
Di qui la scelta del Governo dell’appalto-concorso, normalmente riservata ai ponti o alle autostrade, per ricostruire un’opera architettonicamente complessa come un teatro, che si rivelò nefasta, scatenando ben presto una dura battaglia legale tra le imprese partecipanti. Per l’ambiguità del progetto preliminare che non chiariva se dovesse essere compresa o meno nel nuovo teatro anche l’ala sud, risparmiata dall’incendio, solo il progetto della cordata guidata dall’impresa Impregilo, curato da Gae Aulenti e Antonio Foscari, la comprese e risultò vincitore.
Ma un ricorso al Consiglio di Stato dei secondi classificati, il gruppo Holzmann-Romagnoli, con il progetto curato da Aldo Rossi, ribaltò il verdetto. Sempre per fare presto, il cantiere riparte nel giugno del ’99 (già passati tre anni), per finire, teoricamente, due anni e mezzo più tardi senza una perizia di variante che sani le diversità tra i due progetti. Morale: nuovi contenziosi tra l’amministrazione e le imprese su ritardi e maggiori costi. Si arriva così al marzo del 2001, quando il nuovo sindaco Paolo Costa, che è anche commissario per la ricostruzione ed è assistito dall’assessore e avvocato dello Stato Marco Corsini, taglia il “nodo di Gordio” e rescinde il contratto con le imprese, accusandole di inadempienza. Mossa per molti azzardata, ma che invece risulta vincente nella rischiosa partita delle carte bollate. Si rifà la gara e a vincere questa volta è la Sacaim, ed è un po’ un ritorno all’antico, visto che l’azienda era partner di Impregilo nel primo cantiere della ricostruzione.
Nel giro di due anni circa, con una frenetica corsa contro il tempo la Fenice è finalmente ricostruita e ritrova anche il suo sipario storico di velluto con le decorazioni floreali dorate, andato distrutto nell’incendio e offerto dalla stilista Laura Biagiotti. Ma la nuova Fenice, se pur nell’aspetto simile all’originale è, finalmente, un teatro moderno. Con una macchina scenica all’avanguardia che permette il massimo utilizzo del palco con la fossa d’orchestra dotata di due piattaforme mobili e di una buca per il suggeritore. Con pareti mobili e girevoli in modo da poterle adeguare ai diversi assetti organici degli orchestrali. Con quattro carri mobili laterali e quattro piattaforme mobili centrali di palcoscenico, a due piani, che consentono rapidissimi cambi di scene, indispensabili per le opere liriche. Con una enorme vasca d’acqua collocata sotto la sala neopalladiana progettata da Aldo Rossi, che garantisce l’approvvigionamento idrico. Anche se accadesse, come vent’anni fa, che i canali intorno al teatro fossero all’asciutto. E scoppiasse un incendio.
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