Omicidio di Porto Menai perizia sui due cellulari

La Procura vuole capire se assassino e vittima si erano scambiati minacce Fondamentale il traffico nei giorni precedenti la coltellata mortale alla gola

MIRA. Nei giorni e nelle ore precedenti all’omicidio, la vittima e il suo assassino si erano scambiati messaggini minacciosi? C’era stata qualche conversazione inerente le tensioni sul posto di lavoro, che pare siano state la miccia della furia omicida? Il pubblico ministero Giorgio Gava ieri mattina ha conferito l’incarico tecnico per l’analisi dei cellulari all’ingegner Nicola Chemello nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Gheorghe Suta, romeno di 37 anni, per mano del connazionale e collega Georgian Bejenaru, 29 anni. Il delitto è maturato all’alba del 9 marzo nell’appartamento di Suta in via Mare Mediterraneo a Porto Menai. Da qualche tempo il 37enne aveva aperto le porte della sua casa a Bejenaru. Il sostituto procuratore ha disposto che il perito effettui l’analisi della memoria sui cellulari dell’omicida, della vittima e del connazionale presente nell’appartamento al momento del delitto, ma non testimone diretto dell’episodio.

Georgian Bejenaru, difeso dagli avvocati Claudia De Martin e Marianna de Giudici, è accusato di omicidio volontario aggravato dalla convivenza e dalla minorata difesa, tenuto conto che Suta era stato sorpreso nel sonno e colpito con un coltello al collo.

Vittima e omicida condividevano la stessa casa, ma anche il lavoro. Entrambi erano alle dipendenze di una ditta che opera in subappalto per Fincantieri: Suta era il capo, Bejenaru era in prova e pare non stesse facendosi apprezzare, tanto che era nell’aria la mancata conferma del contratto. E proprio per questo i litigi erano frequenti. L’ultimo la sera prima del delitto. Gli inquirenti sono convinti che l’omicidio possa essere maturato proprio sull’onda di queste tensioni che avevano fatto montare la rabbia in Bejenaru.

Dal canto suo, l’indagato finora non ha fornito la propria versione dei fatti. Le uniche parole pronunciate erano state quelle subito dopo il fatto, quando con i carabinieri si era lasciato andare: «Avevo paura che la mia vita fosse in pericolo». Nell’interrogatorio di convalida davanti al gip aveva deciso di stare in silenzio. Il giudice aveva confermato il carcere ritenendo sussistenti sia il pericolo di fuga che di reiterazione del reato.

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