Occhio a usare i social in ufficio, si rischia il posto
VENEZIA. Cosa rischia un dipendente se usa Facebook? Che tipi di controlli può mettere in campo una azienda quando un lavoratore chatta durante l'orario di lavoro? La giurisprudenza in merito non è granitica, abbiamo pronunce diverse tra loro, ma in genere l'utilizzo dei Social Network può costare caro ai lavoratori. Vediamo qualche caso.
Nel 2014 il Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano, con ordinanza del 1 agosto 2014, ha dato ragione alla azienda e rigettato il ricorso del lavoratore che era stato licenziato per aver scattato delle foto in orario di lavoro e per averle pubblicate su Facebook. Ad aggravare la posizione del dipendente c'erano anche le ricorrenti visite a siti pornografici sempre in orario di lavoro. La azienda, effettuati i controlli, aveva quindi intimato il licenziamento. Il lavoratore si era difeso sostenendo che il computer era accessibile a molti e che il suo profilo era stato utilizzato da terzi, ma il Giudice non ha creduto a questa tesi.
Nel 2015 è intervenuta, per un'altra fattispecie, la Corte di Cassazione con la Sentenza del 27.5.2015 n.10955, Sez. Lavoro. Il tema è sempre quello di Facebook, ma l'angolazione è molto diversa. In questo caso infatti l'azienda aveva creato un profilo falso di Facebook attraverso il quale chattava con il lavoratore. Il fine era quello di verificare che uso del telefono fosse fatto durante l'orario di lavoro. La Corte ha affermato che i "controlli difensivi occulti" sono tendenzialmente ammissibili, perché diretti ad accertare comportamenti illeciti diversi da inadempimento (cioè dall'ambito di tutela dello Statuto dei Lavoratori). È quindi bene tenere presente che la giurisprudenza cerca di bilanciare diritti "diversi e configgenti": il potere di controllo, la riservatezza, l'esigenza del datore di evitare condotte illecite e la dignità del lavoratore.
Questo bilanciamento non sempre è favorevole al lavoratore, ma non è neppure univoco nelle decisioni dei Giudici. In merito ricordiamo che nel 2010, con la Sentenza n. 4375, la Cassazione si è espressa sempre sui controlli del lavoratore attraverso programmi informatici che consentivano la verifica sulla posta elettronica e l'accesso Internet. In questo caso ha statuito che le informazioni raccolte con detti sistemi non sono utilizzabili a fini disciplinari e gli Ermellini hanno ritenuto che la insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite dei dipendenti non può assumere una portata tale da annullare ogni forma di riservatezza e dignità della persona. In sintesi il cuore del problema sono i cosiddetti "controlli difensivi occulti" posti in essere dal datore di lavoro. I controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio aziendale, (del dipendente), paiono esclusi dalla garanzia dell'art 4 dello Statuto dei lavoratori, in base alla giurisprudenza, poiché non riguardano l'adempimento della prestazione lavorativa. I decreti del cosiddetto Job Act hanno cercato di affrontare la questione con l'art 23 del D.Lgs.n.151/2015. L'art 4 dello Statuto dei Lavoratori è stato riformulato in modo da tenere presenti oltre agli impianti audiovisivi anche gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, (comma 1).
Non è invece necessario l'accordo collettivo, (o la autorizzazione della DtL), per gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa, (oltre a Internet i tablet, i pc, telefoni cellulari, software per la comunicazione, ect). Questo è quanto stabilito dal II comma del nuovo articolo 4 dello Statuto ed è la novità rispetto al passato. In conclusione, quindi, è necessario attendere la applicazione delle nuove norme per capire se è possibile o meno mettere un punto di chiarezza. Sia i dipendenti che i datori di lavoro debbono valutare con attenzione e soprattutto in via preventiva l'uso delle informazioni e l'utilizzo dei vari strumenti derivanti dalle nuove tecnologie, poiché rileva, in ultima istanza, sempre la fattispecie concreta in rapporto alla legge e alla giurisprudenza.
Riproduzione riservata
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia