«Non sei musulmano? Ma se preghi va bene»

Gianluca Salviato racconta gli otto mesi di prigionia: all'inizio botte,
poi medicinali e cibo piccantissimo. "Lì non tornerò mai più"
Gianluca Salviato finalmente a casa
Gianluca Salviato finalmente a casa

TREBASELEGHE. Gianluca Salviato ha finalmente potuto dormire su un materasso dopo otto mesi di prigionia in Libia, durante la quale era un materassino posato sul pavimento il suo giaciglio. «Ma ho sempre avuto tanta fiducia che mi avrebbero riportato a casa» assicura. Il tecnico, che lavorava a Tobruk per l'impresa Ravanelli di Venzone impegnata nella realizzazione degli impianti idrici della città, era stato rapito il 22 marzo scorso. Per tutto questo tempo la Farnesina ha tessuto nel riserbo relazioni importantissime, che hanno dato il risultato sperato.

salviato e i suoi cagnolini
salviato e i suoi cagnolini

«Voglio ringraziare tutti, sono persone fantastiche» continua a ripetere. Salviato riceve i giornalisti nel salottino di casa assieme alla sorella e a Leone e Woody, i due cagnolini da casa. Attaccato al muro c’è uno striscione in dialetto. Sorride mettendosi in posa davanti, dice che forse scriverà un libro. «Peccato che non mi abbiano lasciato portar via i tre quaderni che ho riempito di appunti» si rammarica «Ci ho annotato tutto quello che facevo, anche per scaricare la tensione. Mi è mancata la luce del sole perché ero chiuso in una stanza con le finestre sbarrate, avevo solo la luce artificiale. I miei rapitori comunque mi hanno abbastanza rispettato» aggiunge «permettendomi di curarmi e di mangiare tre volte al giorno. Solo che il loro cibo era talmente piccante che le fiamme dell’inferno sono nulla. Per colazione/pranzo mi portavano uova e fagioli, uova e tonno o uova e peperoncino. La sera couscous, maccheroni all’italiana o zuppe di patate con pezzi di pollo, pomodoro e i peperoncini tagliati dentro e bolliti assieme».

Tecnico rapito il Libia: il ritorno di Salviato a Mestre

Si sono anche preoccupati della sua salute: diabetico, non aveva potuto prendere i medicinali salvavita che teneva sempre in auto: «Mi hanno portato l’insulina dopo due o tre giorni, però ho sempre avuto i medicinali di base che mi servivano. L’unica cosa che mi mancava era la macchinina per controllare la glicemia. Quella me l’hanno procurata dopo tre mesi, e di striscette ce n’erano per tre sole settimane. Facevo un controllo giornaliero e sono riuscito abbastanza bene a dominare il diabete. Passavo le giornate camminando attorno alla stanza, facendo un po’ di ginnastica, scrivendo o pregando a voce alta. Avevo anche un bagno a disposizione». Dopo mesi di richieste, ed evidentemente un comportamento da ostaggio modello, ha avuto il premio desiderato: «Mi hanno concesso un caffè al giorno con qualche biscotto, ma niente sigarette».

la prima telefonata al padre
la prima telefonata al padre

Del momento del rapimento ricorda tutto: «Un’auto mi ha sorpassato e bloccato, ho messo la retromarcia ma sono stato tamponato da una seconda vettura, erano otto in tutto. Dalla prima ne sono scesi un paio, uno ha infilato il kalashnikov nel finestrino e mi ha tirato giù. Ho tentato la fuga sperando di raggiungere il nostro cantiere dove c’era personale armato, ma sono stato colpito col calcio dell’arma sul collo e poi sulla bocca, e sono caduto in ginocchio. Così mi hanno messo le manette e le catene ai piedi e siamo partiti».

Salviato è stato tenuto in due luoghi «Dapprima a Beida, dove mi hanno spogliato lasciandomi in mutande e tolto tutto: scarpe, cellulare, orologio, la fede e perfino gli occhiali, che non ho più riavuto» afferma Salviato, che si è fatto una fede “artigianale” con un pezzetto di ferro verde «Poi mi hanno rivestito con una tunica grigia. Sono stati i giorni più difficili, perché per intimorirmi e farmi stare buono mi hanno schiaffeggiato e dato qualche pugno. Mi hanno anche tirato per i capelli e puntato la pistola alla testa. Si presentavano incappucciati e armati, era impressionante. Loro giocano molto sulla nostra paura. Dopo qualche giorno mi hanno spostato a Derna, dove il gruppo principale che comanda la città è Answar Al Sharia. Suppongo che i miei rapitori facessero parte di quel gruppo. In tutto erano 13, dei quali solo tre libici».

Salviato non ha mai avuto la possibilità di fuggire, e neppure avrebbe avuto possibilità di successo senza gli occhiali. «Comunicavamo in misto arabo inglese» racconta ancora «a volte venivano dentro per farmi vedere del filmati dei loro combattenti in Siria e mi dicevano: vedi, lui è morto per Allah. Altre volte mi facevano dei video come quelli mandati alla Farnesina. Mi imponevano di dire nome, cognome, età. Ho chiesto se potevo sapere come stavano i miei, ma non mi hanno detto mai nulla. Mi hanno anche domandato se ero musulmano. “Sono cattolico”, ho risposto. E preghi? “Sono religioso”. “Allora va bene”, mi hanno detto». L’ultimo pensiero Salviato lo riserva alla Libia: «un Paese che dall’entusiasmo del 2013 è precipitato nella lotta armata. Quando sono stato liberato e da Derna mi hanno portato all’aeroporto di Tobruk, nei 400 chilometri in auto abbiamo fatto almeno 20 check point delle varie milizie. Laggiù non ci torno. Libia, Egitto, Algeria sono diventati pericolosi. Ma noi italiani per lavorare siamo costretti a emigrare».

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