Nell’angolo di provincia di Venezia dove nascono i tartufi. «Il nostro business da 2 mila euro al chilo»
Daniel Basso con la moglie ha avviato a Santa Maria di Sala “Nero di Cognaro” nel 2015. Nel 2020 la prima raccolta rigorosamente sfruttando il fiuto del cane
SANTA MARIA DI SALA. Esiste un posto, nella campagna di Santa Maria di Sala, dove si producono tartufi. Sì, proprio quei funghi che tanto deliziano il palato ed esaltano il piatto, specie in autunno. Ma non tutti sanno che si possono trovare per gran parte dell’anno: “Nero di Cognaro” è una realtà che ne commercializza ben cinque dei sei tipi commestibili. Manca il pregiato Bianco d’Alba che si trova soprattutto in quella zona del Piemonte. Dietro a quest’idea c’è una coppia, Daniel Basso ed Eleonora Maso, di 33 e 32 anni, che sviluppò l’idea nel 2014 e posò la prima pianta a maggio 2015, unico esempio nel Veneziano.
Signor Basso, pare una stranezza parlare di produzione di tartufi nel Veneziano. Invece non è così…
«Esatto, si può fare e noi ne siamo l’esempio».
Ci dica, come si fa? E com’è nato il progetto?
«Mia moglie ed io facciamo altro nella vita. Negli studi di Economia erano stati toccati argomenti come lo zafferano, il caviale e, appunto, il tartufo, abbiamo deciso di sperimentare. Abbiamo acquistato un ettaro di terreno già avviato nelle Marche perché così volevamo entrare nel mercato, in attesa di sviluppare il progetto a Santa Maria di Sala. Perché una pianta dia frutto servono 5-6 anni e qui non se ne sarebbe parlato prima del 2020. All’inizio avremmo voluto tenere solo il terreno veneto, invece abbiamo deciso di investire su entrambi perché si completano».
In un ettaro di terreno quante piante ci stanno?
«A Santa Maria di Sala abbiamo 11 mila metri quadrati nostri, dove in precedenza si coltivava granoturco. Abbiamo ripulito e analizzato il terreno per capire se fosse in grado di poter ospitare una coltivazione di tartufo. E siamo partiti. Abbiamo circa 640 piante e ciascuna produce 3 etti di tartufo l’anno. Ciascuna si nutre dei sali minerali della terra e di quelli nutritivi della pianta stessa. Come attività, dura una ventina d’anni. Le piante sono ben distanziate l’una dall’altra per garantire il sole necessario e la giusta umidità. Sotto il terreno c’è un sistema irriguo lungo due chilometri e mezzo. Nelle Marche è tutto al naturale, il terreno è senz’altro diverso da quello nostro».
È vero che ci si deve affidare solo a un cane per scovarle i tartufi?
«Sì, perché il fiuto del cane permette di trovare il tartufo quand’è maturo. L’uomo non riesce».
Che tipi di tartufo vendete?
«Abbiamo lo Scorzone estivo, l’Uncinato in autunno, il Nero pregiato e il Brunale in inverno, il Bianchetto in primavera. Manca il Bianco d’Alba che cresce in modo naturale. Nelle Marche qualcosa riusciamo a fare. Ci sono 64 specie tartufi in natura, ma solo sei sono commestibili».
E il prezzo?
«Per un tartufo nero si ruota attorno ai 1.000 euro al chilo, 2.000-2.500 euro se bianco ma quello d’Alba raggiunge cifre per più alte».
I vostri clienti chi sono?
«Volevamo entrare nel mercato servendo soprattutto i ristoratori, in realtà sono più i privati, diciamo al 90%. Non tutti i cuochi hanno la cultura del tartufo, lo usano per piatti speciali. È un prodotto fresco, dev’essere usato nell’arco di 3-4 giorni».
Come stanno andando le vendite?
«Privilegiamo le nostre zone proprio per la ragione che dicevo prima: si deve consumare in tempi rapidi. Per questo evitiamo l’estero e i posti troppo lontani. La prima raccolta del 2020 ci ha dato belle soddisfazioni, nel 2021 si è fatta più fatica a trovarlo: la poca pioggia e il cambiamento climatico incidono».
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