Musile, sette soldati italiani nella fossa comune

I primi accertamenti del medico legale sui resti trovati dopo la frana sul Piave: non era una trincea ma una sepoltura
La frana a Croce di Musile
La frana a Croce di Musile
MUSILE. Appartengono ad almeno sette militari, se non più, le ossa trovate sull'argine del Piave a Musile alcuni giorni fa. A spiegarlo è il patologo forense vicentino Andrea Galassi, che da anni si occupa del recupero dei resti dei soldati morti durante la Grande guerra. Ha compiuto il primo sopralluogo e il medico avrebbe anche stabilito già che si tratta di italiani e non di austriaci, come invece qualcuno aveva suggerito.


Infine, sempre stando ai primi e superficiali accertamenti, non sarebbe venuta alla luce una trincea, bensì una fossa comune dove sono stati sepolti: i soldati deceduti sarebbe stati avvolti in una rete metallica e interrati in quel luogo, una fossa che sarebbe venuta alla luce a seguito del cedimento dell'argine.


A incaricare Galassi, che oltre ad essere medico legale si interessa particolarmente del primo conflitto mondiale e più volte si è occupato del recupero di ossa appartenute a militari di questo o quello schieramento deceduti durante gli scontri tra il 1915 e il 1918, è stata il pubblico ministero di Venezia Rita Ugolini, immediatamente avvertita dai carabinieri del casuale ritrovamento dei resti a Musile.


Sul Piave si è combattuta la battaglia del Solstizio nel giugno 1918, da una parte c'erano gli italiani che dovevano resistere altrimenti le truppe austroungariche avrebbero raggiunto Venezia, dall'altra l'esercito di Vienna, che aveva sfondato a Caporetto e che proprio sul fiume sacro è stato fermato prima e poi respinto. Da una parte e dall'altra morirono a centinaia di migliaia e spesso gli uni strappavano per sfregio le targhette di riconoscimento degli altri e viceversa, in modo da non farli riconoscere. Più dell'80 per cento dei militari morti della Grande guerra sono rimasti senza nome.


Per quanto riguarda gli italiani, poi, se non ci avevano pensato i nemici di allora è stato il tempo a cancellare le identità. Il nostro esercito, infatti, a differenza di quello austroungarico che a ogni soldato aveva consegnato una piastrina d'ottone con inciso nome e cognome, aveva ritenuto meno dispendioso consegnare ad ognuno una piccola scatola di ferro, dentro c'era un biglietto con nome e cognome. Ma, anche ritrovandola, dopo decenni la ruggine ha impedito di scoprire l'identità, distruggendo la carta.


Dopo il recupero di tutti i resti, il patologo vicentino ricostruirà gli scheletri e forse potrà anche stabilire il Dna, anche se neppure l'impronta genetica potrebbe essere utile per dare un'identità.

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