«Morire con dignità la scelta di Vittorio. La politica si muova»
VENEZIA. «Come avrei potuto, volendogli bene, non accompagnarlo fino alla fine? All’inizio ho fatto fatica, non ci volevo credere. Poi ho capito e accettato la sua scelta. E quando Vittorio se ne è andato, lo ha fatto con il sorriso».
Marisa Piovesan, di Dolo, è la moglie di Vittorio Bisso, malato di Sla morto a 53 anni il 26 giugno del 2012 in una clinica svizzera dopo aver scelto la morte assistita, proprio come Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, morto ieri in Svizzera dopo che un incidente stradale nel 2014 lo aveva fatto diventare cieco e tetraplegico.
«Tutti dovrebbero poter decidere di morire con dignità, questo mi ha insegnato l’esperienza di Vittorio» Ha seguito il caso di dj Fabo? «Questo ragazzo ha il mio rispetto e la mia stima, anche per aver voluto rendere pubblica la sua vicenda. Purtroppo però la politica ne parla solo quando si verificano casi come questi, come accadde con Vittorio».
Era il 2012. Qualche passo avanti è stato fatto? «Il dibattito sul fine vita si accende su singoli casi e poi sparisce. L’unico passo avanti riguarda i registri per il testamento biologico, introdotti dai singoli Comuni ma senza una regia dello Stato. Il parlamento dovrebbe impegnarsi a garantire il diritto per una morte degna e invece si occupa di altro. Intanto molte persone continuano ad andare in Svizzera, ma non tutti se lo possono permettere».
Come reagì quando suo marito le disse di voler andare in Svizzera a morire? «Lui era molto convinto. All’inizio non ci volevo credere, e anche nostro figlio Davide non ne voleva sentir parlare. Poi abbiamo accettato la sua scelta, gli siamo stati vicino, e lo abbiamo accompagnato. Lui si era rivolto all’associazione Dignitas già un anno prima di morire, all’inizio non ce ne aveva parlato. Sono convinta che sapere che a un certo punto avrebbe potuto dire basta, gli ha dato maggiore forza per affrontare la malattia. Cercare di fargli cambiare idea sarebbe stata una violenza. Poi negli ultimi mesi la Sla è degenerata in fretta».
Avevate mai discusso, in precedenza, del fine vita? «Conoscevo il suo punto di vista. Lui era un motociclista, e mi aveva detto: “Se per un incidente divento un vegetale, preferisco morire”. Nessuno di noi però aveva pensato di dover prendere questa decisione per una malattia».
È giusto poter scegliere di morire? «Per la mia esperienza, io credo che, quando la vita non è più degna di essere vissuta, vada garantito il diritto a una morte degna, senza il bisogno di andare in Svizzera. C’è chi la pensa diversamente, ad esempio le persone che hanno fede. Forse se fossi una persona di fede avrei avuto una reazione diversa, ma io, Vittorio e mio figlio non lo siamo mai stati. Però sono convinta che il diritto a una morte degna non leda il giusto diritto di un malato terminale a voler vivere. Perché la politica non tutela entrambi?».
Che ricordo ha della ultime ore di Vittorio? «Ad accompagnarlo eravamo io, nostro figlio e la fidanzata, ora diventata sua moglie. Nella clinica lo hanno visitato, poi gli hanno chiesto, per l’ennesima volta, se fosse convinto. Lui ha detto sì, ha assunto il farmaco con una cannuccia. Si è addormentato con il sorriso». Le capita di interrogarsi ancora su quella scelta? «L’amore è condivisione, anche nelle scelte difficili. Non sono pentita di essergli stata accanto».
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