Morì dopo 28 giorni di vita non ci furono negligenze
SPINEA. Nessuna responsabilità medica per la morte del piccolo Giovanni Marù, deceduto il 13 novembre 2014, di prima mattina, ad appena 28 giorni di vita: sotto inchiesta erano finiti ben 17 medici, fra cardiochirurghi e pediatri dell’Azienda ospedaliera di Padova dov’era stato ricoverato il neonato di Spinea.
La procura di Padova ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale, ritenendo che l’operato dei medici sia stato corretto e tutt’altro che negligente sia nella fase diagnostica che in quella chirurgica.
Insomma è stato un fatto ineluttabile la morte del bimbo, evento inaccettabile soprattutto quando si tratta di un figlio unico tanto atteso e amato, come in questo caso. Ma la vita, a volte regala gioie e altre volte tragedie inaspettate. E la scienza medica non è sempre in grado di offrire soluzioni di fronte a patologie gravissime e rare. Giovanni, infatti, soffriva di una malformazione cardiaca di estrema serietà e rarità, una severa cardiopatia malformativa congenita poco comune tanto che non risulterebbero ancora manovre chirurgiche codificate per affrontarla nel corso di un intervento. È quanto emerso dalla consulenza tecnica affidata dal magistrato inquirente a due esperti veronesi, il medico legale Dario Raniero e il cardiochirurgo Paolo Bertolini. Già il feto era malato e i genitori ne erano stati compiutamente informati. Tuttavia la patologia pur seria – riscontrata nel corso della gravidanza e periodicamente monitorata fin dalla sua scoperta con ecografie cardiofetali – era stata giudicata guaribile tramite un intervento chirurgico da svolgere nelle prime settimane di vita. Così il piccolo, partorito il 16 ottobre nella Clinica ostetrica di Padova, sette giorni più tardi, il 23 ottobre, era stato spedito sotto i ferri nella Cardiochirurgia pediatrica che si trova nel padiglione "Gallucci" dell'Azienda ospedaliera patavina. L’operazione era stata programmata ma quando il piccolo torace era stato aperto sarebbe emersa una situazione molto più critica di quella che avrebbe potuto essere rilevata per via diagnostica. In pratica non c’era più nulla da fare: il bimbo era morto pochi giorni più tardi. I genitori avevano presentato un esposto per capire i motivi di quella tragedia. Nel registro degli indagati erano finiti i 17 medici che, in quei 28 giorni, avevano "trattato" il piccolo, compresi alcuni (all’epoca) specializzandi e il responsabile della Cardiochirurgia pediatrica, il professor Giovanni Stellin. Quel 23 ottobre, a sette giorni di vita, il piccolo era stato trasferito in sala operatoria. L’operazione era durata a lungo, di fronte a complicazioni provocate dalla patologia apparsa più grave di quanto ipotizzato in base agli esami diagnostici. Tuttavia sembrava tecnicamente riuscita. Alla fine, però, il piccolo Giovanni, intubato e collegato a una macchina per il ricambio del sangue in Terapia intensiva, non era riuscito a vincere la battaglia per la vita. Le sue condizioni erano peggiorate ogni giorno, poi l’insufficienza renale e il collasso respiratorio risultati mortali.
Cristina Genesin
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia