Monica Busetto torna a casa: "E' finito un incubo"
VENEZIA. «È finito un incubo». Sono queste le prime parole che ieri pomeriggio Monica Busetto è riuscita a pronunciare davanti ai genitori e ad alcuni familiari che la stavano aspettando a casa. La donna, detenuta da oltre due anni per l’omicidio di Lida Taffi Pamio - per il quale si è sempre proclamata innocente - ha saputo della sua scarcerazione all'ultimo momento: quando ieri le è stato comunicato che era libera, Busetto ha avuto un mancamento all'interno del carcere della Giudecca tanto che, prima di riprendersi, l'hanno dovuta distendere per terra. Dopo poco è uscita in uno stato di totale incredulità, non lasciando trapelare nessuna emozione, attonita. Fuori dal carcere, ad attenderla c'erano i due legali di fiducia, Alessandro Doglioni e Stefano Busetto: «La signora è ancora stordita», raccontano, «ed è molto provata da questa dura esperienza. Monica non ha mai smesso di dichiararsi innocente e non ha mai perso la dignità, ma per sopportare quello che le stava accadendo si è dovuta costruire una corteccia».
Monica Busetto, 54 anni, è uscita dal carcere femminile della Giudecca alle 16.35 senza proferire parola, chiusa, trattenuta: nonostante la detenzione e l’improvvisa libertà, non trasandata nell’aspetto, anzi, curata. Capelli mossi e scuri portati a caschetto e corporatura esile, con indosso un piumino verde scuro e un paio di pantaloni e scarpe nere: una borsa a tracolla e altre due nelle mani. Un grande sacco nero contenente vestiti e oggetti usati in carcere ce l’ha in mano l’avvocato Busetto: che lo getta subito nel cassonetto dei rifiuti. Monica Busetto è tornata a casa con gli effetti personali, come il telefonino e gli orecchini, che non vedeva da 762 giorni.
L’operatrice dell'ospedale veneziano Fatebenefratelli ha camminato dall'uscita dell'istituto penitenziario per qualche metro fino alla riva, dove l'aspettava un taxi bianco. In un attimo è salita all'interno, seguita dai due avvocati che si sono seduti di fronte a lei. Poi l'imbarcazione è sparita tra i canali per portarla dai familiari che hanno appreso solo nel pomeriggio la notizia della scarcerazione, aspettando Monica per riabbracciarla più forte che mai.
«Ha guardato imbambolata fuori dal finestrino per tutto il tragitto», hanno poi raccontato i suoi legali, «come una bambina che guarda la sua città per la prima volta». Il destino di Monica Busetto sarà più chiaro il 9 marzo, giorno fissato per il suo processo d’Appello. Fino a quel momento i legali non si vogliono pronunciare sulle eventuali richieste di risarcimento danni. «Non siamo arrabbiati», hanno commentato, «ma stremati. Negli ultimi dieci giorni abbiamo dormito pochissimo, seguendo le indagini della Procura, con la promessa di non dire nulla. Per noi era evidente fin dall'inizio che il Dna trovato nella catenina era una prova inquinata in laboratorio e che tutto il resto era un insieme di tracce che non portavano a nessuna certezza».
I giorni di detenzione hanno costretto Monica Busetto a costruirsi una corazza. In questi anni ha dovuto trascorrere 55 giorni di isolamento e tre mesi nel carcere femminile di Pozzuoli, prima di arrivare alla Giudecca dove aiutava Suor Gabriella a sistemare la Chiesa. «In ogni posto - hanno detto i legali - è sempre stata benvoluta». Più i giorni passavano, più l'incubo si concretizzava: la sua voce non valeva nulla di fronte a quelle che si consideravano prove schiaccianti. Tutti i sospetti si concentravano in quella catenina strappata trovatale in casa, con una minuscola presenza di Dna di Lida Pamio. Lei a dire e ridire che si trattava di un gioiellino dimenticato della comunione della sorella.
Così, per tentare di superare il vortice di solitudine in cui era stata risucchiata, Busetto ha congelato le sue emozioni. L'unico segno di cedimento è avvenuto ieri mattina alle 10.30, quando i legali le hanno comunicato che c'erano dei risvolti positivi nelle indagini. A quel punto Monica è scoppiata in lacrime. Poi la libertà.
Vera Mantengoli
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