Michieletto debutta alla Scala ma il suo Verdi finisce tra i fischi

Il giovane veneziano offre una lettura trasgressiva di “Un ballo in maschera”. Dal loggione piovono “buuuh” e volantini: «Prevedibile, ma è un pregiudizio»

VENEZIA. È finita in bufera la prima alla Scala di “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi, con la regia del veneziano Damiano Michieletto. Alla fine del primo atto, della durata di soli venti minuti, sono cominciati a piovere dal loggione sul pubblico volantini di contestatori, con frasi che hanno poco da invidiare agli striscioni dei tifosi negli stadi: «Giuseppe Verdi, perdona loro perché non sanno quello che fanno»; «il pubblico serio e preparato è nauseato per lo scempio artistico che si sta facendo nel mettere in scena capolavori immortali». Una protesta in qualche modo annunciata: qualcuno, nei giorni di vigilia, gli aveva fatto sapere che ci sarebbero stati dissensi.

«Era prevedibile e previsto» commenta il regista, 37 anni e una carriera in costante ascesa che lo ha portato negli ultimi dieci anni a dirigere allestimenti lirici nei più importanti teatri e festival europei. «Da un lato posso capire il dissenso, anche se è stato un po’ troppo precipitoso e viziato da pregiudizio: venti minuti sono troppo pochi per formarsene uno di giudizio. Dall’altro mi fa un po’ sorridere i modi in cui è stato espresso». Una cosa del genere, nonostante i suoi allestimenti siano sempre innovativi, non gli era mai capitata: «Ho portato in scena spettacoli molto più trasgressivi di questo, ma il dissenso di chi si erge a difensore della tradizione rifiutando il confronto non può nemmeno essere contrastato con il dialogo». Men che mai, gli è capitata all’estero: «Il pubblico straniero è indubbiamente diverso. I miei contestatori vorrebbero che il repertorio verdiano fosse cristallizzato, rivolto al passato e riproposto negli stessi termini, come se libretto e musiche non fossero patrimonio di chi mette in scena l’opera e ne esegue le musiche. Quando un teatro mi chiede di fare una nuova produzione, cerco un dialogo con la vita di oggi e gli spettatori apprezzano, perché sono disponibili al confronto. Vogliono vedere qualcosa di diverso da ciò che conoscono. Evidentemente non è così per questa piccola fetta di pubblico milanese, che in questo caso ha reagito con un colore un po’ da paese mediterraneo».

Nel caso di “Un ballo in maschera”, la lettura che Michieletto dà della storia di Riccardo, governatore di Boston innamorato della moglie del suo migliore amico, si pone come una riflessione sul potere politico e sul contrasto fra immagine pubblica e sfera privata in un’ambientazione da campagna elettorale. E un riferimento inevitabile all’attualità. È finita con otto minuti di applausi per tutti, fischi per lui, pubblico contro pubblico e attestazioni di stima da parte di Alexander Pereira che nel 2015 diventerà sovrintendente e dice «Sicuramente farà nuove regie, anche alla Scala» «Ma per me» continua Michieletto «al di là delle tante espressioni di stima che mi sono arrivate, la più significativa sono stati i complimenti ricevuti, non appena chiuso il sipario all’ultimo atto, dal direttore del coro della Scala Bruno Casoni, uno che conosce veramente la Scala e il suo pubblico, che vive il teatro da decenni. Per me sono stati la cosa più bella della serata». Il regista sarà nuovamente a Milano a settembre per il riallestimento della sua fortunata “Scala di seta” rossiniana. A Salisburgo il 29 luglio andrà in scena un altro suo allestimento verdiano, il “Falstaff” con la direzione del maestro Zubin Mehta, ambientato nella Casa di riposo per cantanti e musicisti intitolata a Milano al compositore di Busseto, che la fondò nel 1896. E nel prossimo inverno tornerà in Veneto con una nuova produzione di prosa dei Teatro Stabili del Veneto e dell’Umbria, “L’ispettore generale” di Gogol.

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