Mezza città al funerale di Giorgio il clochard che tutti apprezzavano

IL RACCONTO
«Nessuno vive per se stesso, nessuno muore per se stesso», diceva San Paolo. Tutto il mistero della vita, e della morte, sta nella scelta, radicale, di Giorgio Dorde Mandich di vivere la sua esistenza sotto i portici. Prima di piazza Ferretto, poi di corso del Popolo e via Cappuccina. Una scossa alle nostre coscienze.
Ieri per i funerali del senza dimora morto l’8 febbraio in ospedale, il Duomo di San Lorenzo era pieno di gente. Tanti, causa distanziamento, hanno atteso fuori. C’era la mamma di Mandich, silenziosa nel suo lutto. C’era l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini con la fascia tricolore, in rappresentanza della città che ha pagato le esequie. «Essere qui in tanti», ha detto, «è la dimostrazione di come la città abbia saputo apprezzare la presenza, sempre discreta, di Giorgio, di come tutte le vite siano importanti e possano lasciare un segno negli altri. Spesso chi sceglie di vivere in strada, non ha amici, diventa quasi invisibile: per lui non è stato così». In chiesa si è ritrovata la compagnia di ragazzini che giocavano assieme in corso del Popolo: Corrado Callegari, Carlo Pagan, Gennaro Marotta. Mescolati agli amici di ieri e oggi, ai baristi, con il grembiule da lavoro e gli amici della vita sulla strada: altri clochard, con i volontari della comunità di Sant’Egidio. Alessandra Molani ricorda che la Mestre non indifferente, che aiuta, «è la sua famiglia».
Ali Mohammed dell’associazione del Bangladesh porta mazzi di fiori e lacrime: aveva ereditato dal figlio adolescente, scomparso, l’amicizia per quest’uomo particolare, a cui portava ogni sera da mangiare, che non voleva un letto dove dormire ma un bagno, sì. E Ali chiede alla città di dotarsi di bagni pubblici per aiutare i senza dimora. Don Gianni Bernardi ricorda una persona che praticava gentilezza, sergente maggiore dei lagunari: l’Associazione lagunari gli ha dedicato la preghiera del Corpo. Tra i commilitoni l’ex vicesindaco Michele Mognato.
Mandich aveva lavorato all’Aprilia, aveva viaggiato in America, era stato guida turistica in Mali. «Vicino teneva carta e colori, per disegnare», ricorda don Gianni. «Le suore delle figlie della chiesa al mattino il primo saluto lo ricevevano da lui». Lo si vedeva in Duomo. «Stava in fondo, accendeva un lumino, pregava. Era benvoluto, amato. E apparteneva al Signore». Il suo, grazie anche alla impresa Lucarda, non è stato un funerale di povertà. Alcuni operatori sociali ora lanciano un’idea: modificare il regolamento comunale dell’Anagrafe per intitolare a Mandich la via fittizia che per legge va apposta sui documenti dei senza dimora. Oggi si chiama via della Casa comunale. «Riconoscere a tutti i Mandich di oggi e di domani che in città c’è una via, che li tutela, e che ricorda. Uno sforzo di memoria e di cittadinanza». —
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