Mestre, Susanna Lazzarini incastra la Busetto
Dopo aver scagionato Monica Busetto per tre interrogatori, sostenendo di aver ucciso Lida Taffi Pamio da sola, Susanna Lazzarini ha fatto marcia indietro e ha raccontato alle pubblico ministero Lucia D’Alessandro e Alessia Tavarnesi che a spingerla ad uccidere l’anziana residente in viale Vespucci sarebbe stata Monica Busetto. Non solo: ha aggiunto che l’inserviente del Fatebenefratelli dirimpettaia della vittima era con lei, nella casa della Pamio, quando l’ha uccisa, il 20 dicembre del 2012. Due dichiarazioni contraddittorie: grazie alla prima Monica Busetto, poco più di due mesi dopo essere stata condannata a 24 anni e mezzo per omicidio volontario, era stata scarcerata, ma qualche settimana dopo avrebbe sostenuto il contrario.
Monica Busetto era stata condannata sulla base di una prova schiacciante: gli investigatori della Squadra mobile in casa sua (abitava sullo stesso pianerottolo della Pamio, di fronte) avevano trovato una catenina d’oro strappata, con la chiusura rotta, dalla quale gli uomini della Polizia scientifica hanno estratto il dna della vittima. Stando alle accuse, quindi, quella collana Lida Taffi Pamio la indossava quando è stata uccisa e le era stata strappata. La circostanza di averla trovata in un portagioie della Busetto l’ha incastrata. In realtà, in un precedente esame, compiuto sempre da un consulente dell’accusa, non era stata trovato alcun dna. E proprio su questo avevano insistito i difensori, gli avvocati Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, sostenendo che il dna dell’imputata era finito sulla collanina per un processo di contaminazione. L’imputata era stata condannata, ma poi erano arrivate le dichiarazioni della Lazzarini che l’avevano scagionata. Il 14 ottobre, nell’aula bunker di Mestre, si celebra il processo d’appello ed è probabile che Susanna Lazzarini venga chiamata a testimoniare. Che cosa dirà? A questo punto è difficile dirlo: le due pubblico ministero, però, sostengono la tesi che davvero Monica Busetto sia stata complice dell’efferato delitto di Lida Taffi Pamio, accoltellata, soffocata e strozzata in casa sua.
Proprio per dimostrare questa loro tesi avevano chiesto, dopo il 2 marzo (giorno della scarcerazione di Busetto), di poter intercettare il suo telefono e quello di alcune sue amiche con cui era in contatto. Ma il giudice delle indagini preliminari Massimo Vicinanza ha negato loro questa possibilità scrivendo che la donna era già stata condannata e non poteva certo essere nuovamente indagata per lo stesso fatto e, inoltre, che il procedimento nell’ambito del quale erano state chieste le nuove intercettazioni era diverso da quello per la quale Busetto era finita sotto inchiesta. Riguardava infatti l’omicidio di Francesca Vinello, con il quale nulla aveva a che fare l’inserviente del Fatebenefratelli.
Lo stesso giudice, poco prima, aveva imposto un altro stop alle due pm, negando loro la possibilità di un incidente probatorio. Gli avevano chiesto di interrogare alcune detenute rinchiuse nella stessa cella di Busetto e Lazzarini, nel carcere della Giudecca, e un agente di custodia. Gli investigatori della Squadra mobile aveva piazzato alcune microspie in cella, ma non avevano registrato alcun colloquio significativo tra le due, appositamente sistemate nella stessa cella. Gli inquirenti volevano dimostrare che le due si conoscevano anche prima di finire in cella assieme, visto che avevano abitato nello stesso palazzo di viale Vespucci, quello dove era morta Lida Taffi Pamo. Le detenute avrebbero dovuto spiegare che le due parlavano spesso tra loro e che avrebbero anche scambiato battute sull’omicidio. In realtà, non sarebbe andata così: le due avevano sì abitato nello stesso palazzo, ma in periodi diversi e distanti e la testimonianza delle detenute non sarebbero rilevanti.
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