Mestre, piccolo fatto nascere in ritardo: ginecologi condannati a otto mesi

Paolo La Rosa e Cosimo Capoti, allora medici a Villa Salus, accusati dalla Procura di omicidio colposo Il bimbo era venuto alla luce con gravissime lesioni, morendo a 4 anni. Battaglia per il risarcimento
POSSAMAI MESTRE: L'OSPEDALE VILLA SALUS..22/05/2008 © SALVIATO LIGHTIMAGE
POSSAMAI MESTRE: L'OSPEDALE VILLA SALUS..22/05/2008 © SALVIATO LIGHTIMAGE

MESTRE. Otto mesi di reclusione a testa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena, per aver fatto nascere in ritardo il piccolo Matteo, causandogli lesioni gravissime che non gli avevano permesso di sopravvivere oltre i quattro anni. La sentenza di condanna è stata letta ieri pomeriggio dalla giudice monocratica Sara Natto per i ginecologi Paolo La Rosa, difeso dagli avvocati Luigi Dalla Rosa e Baldassarre Mistretta, e Cosimo Capoti, che si è affidato all’avvocato Giuseppe Sarti. Entrambi al tempo erano in servizio a Villa Salus. L’accusa che la pubblico ministero Paola Mossa aveva formulato a carico dei professionisti era di omicidio colposo. A conclusione della sua requisitoria, la sostituto procuratore aveva chiesto pene più elevate per i ginecologi: 2 anni e 4 mesi per La Rosa e 1 anno e 4 mesi per Capoti.

Il parto finito davanti alla giudice risale al 2007. La mamma era alla sua prima gravidanza ed era arrivata alla 34esima settimana. Si era presentata a Villa Salus lamentando dolori che in un primo tempo erano stati fatti risalire dai medici a una colica renale. Invece la donna aveva avuto la rottura dell’utero. I due medici si erano succeduti nell’assistenza alla giovane incinta: prima il dottor Capoti, che aveva accolto la paziente durante la notte, poi il dottor La Rosa che l’aveva seguita per il resto della giornata, prima del parto con taglio cesareo d’urgenza. Il piccolo Matteo era rimasto senza ossigeno e il suo cervello era stato gravemente danneggiato, tanto che la sua breve vita era trascorsa tra continui ricoveri al reparto di Pediatria dell’ospedale all’Angelo per le pesanti conseguenze della sua tetraplegia. Fino alla morte a 4 anni.

Le difese avevano sostenuto nel corso delle arringhe che la rottura dell’utero, a quel punto della gravidanza e una primipara giovane com’era la mamma, si registra in un caso su 20mila. Non è poi un problema che si può prevedere con l’utilizzo di strumenti. Nessuna responsabilità era per le difese in capo ai due medici visto che la gestante non era in travaglio e non manifestava particolari fattori di rischio che avrebbero indotto i professionisti ad adottare tutte le cautele del caso.

Ieri il pronunciamento della giudice monocratica che ha chiuso la vicenda vecchia di dieci anni, per la quale in un primo tempo c’era stata la richiesta di archiviazione, a cui i genitori si erano opposti, facendo partire le indagini e le consulenze.

Il risarcimento. La famiglia del piccolo non si era costituita parte civile nel procedimento penale poiché, con l’avvocato Abram Rallo, in sede civile aveva ottenuto un primo risarcimento che però non aveva considerato tra i beneficiari anche i nonni del piccolo Matteo. I genitori avevano presentato appello, ottenendo la riquantificazione dell’importo - attorno al mezzo milione di euro totale - prendendo in considerazione anche i nonni. Ma la battaglia della famiglia del piccolo non è conclusa: ora si è arrivati alla Corte di Cassazione, a cui i genitori hanno chiesto l’applicazione delle tabelle del tribunale di Milano per il risarcimento, che prevedono importi più elevati rispetto alle tabelle del tribunale di Venezia, usate per la quantificazione in questo caso.

La famiglia del bimbo ha poi avviato un’altra causa civile perché, nel corso della seconda gravidanza, si era verificata un’altra rottura dell’utero proprio nello stesso punto della precedente. Un problema, questo, che aveva costretto i medici all’asportazione dell’utero stesso. Ma il tribunale aveva rigettato la richiesta di risarcimento, sostenendo che solo la prima rottura non fosse prevedibile. Ma anche in questo caso la battaglia è ancora in corso: i genitori si sono rivolti alla Corte d’Appello, forti di quanto è emerso in sede civile e ora anche in sede penale.

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