Maritan: «Mi sono difeso, non volevo ucciderlo»
SAN DONÀ. «Se Lovisetto non mi avesse aggredito, sarebbe ancora vivo. Io non ho tentato di uccidere nessuno. Se mi lasciava a terra, aveva vinto. Invece voleva stravincere, avrebbe voluto il finale tutto per sé». Silvano Maritan come un fiume in piena, ieri davanti ai giudici della Corte d’Assise con l’accusa di aver ucciso Alessandro Lovisetto la sera del 13 novembre 2016 in piazza Indipendenza. Per un’ora e mezza, tenendo davanti alcuni appunti scritti a mano, Maritan ha risposto alle domande del pm Giovanni Zorzi, del suo difensore Giovanni Gentilini, dell’avvocato di parte civile Andrea Faraon e dei giudici togati Stefano Manduzio e Daniela Defazio, ricostruendo nel dettaglio la sera dell’omicidio e i rapporti precedenti con Lovisetto e con la sua ex fidanzata, poi diventata la donna dell’uomo ucciso. «Non volevo ucciderlo, volevo solo spaventarlo perché se ne andasse», ha detto Maritan davanti alla corte, «Il coltello? Era di Lovisetto. Allora ero in libertà vigilata e dovevo stare attento a non avere coltelli con me».
L’appuntamento con la ex. Quella domenica sera di novembre, Maritan doveva trovarsi alle 18 in centro a San Donà con la sua ex per la questione della restituzione di 8.000 euro investiti per l’acquisto di una Vespa accessoriata. A seguire doveva cenare con la figlia, come confermato dalla donna sentita come teste della difesa. L’appuntamento con la ex era in un bar - «Ma non in quello dietro l’ospedale, là c’è tanto buio e temevo lei mi tendesse una trappola», ha detto l’ex boss - i due si erano accomodati e avevano ordinato, ma i toni si erano fatti subito accesi. «Lei era agitata, rossa in viso. Si è arrabbiata quando ho parlato della cocaina», ha riferito Maritan, «quando siamo usciti, lei mi ha chiesto: “Perché non vieni a trovare Lovisetto”? Io, che non avevo debiti con lui e non potevo stare vicino a pregiudicati a causa della libertà vigilata, mi ero rifiutato, allontanandomi».
Il delitto. «Ho sentito uno dietro a me ansimare e correre. Mi ero girato ed è stata la mia fortuna, perché Lovisetto mi ha dato un pugno e mi ha insultato. A quel punto mi ha mostrato il coltello. Aveva la bava alla bocca, gli occhi sbarrati: sembrava un drago», ha proseguito Maritan davanti alla corte, «Per prendergli il coltello, mi sono tagliato. Poi l’ho agitato per tenerlo lontano. A un certo punto i ragazzi che erano là hanno detto la parola “carabinieri” e io ho messo via il coltello. A quel punto mi è arrivato un pugno, sono caduto e ho perso gli occhiali. Lovisetto mi dava calci alla testa, allora ho tirato fuori nuovamente il coltello brandendolo a destra a sinistra e lui provava a prenderlo. In quel momento è successo il fatto: Lovisetto si è buttato addosso a me. Mi sono alzato e gli ho detto: “Finiamola qua”. Lui mi ha risposto: “Va bene” e se ne è andato». Morirà poco dopo, stramazzando vicino alla corte del Caffè Letterario, nei pressi della spina della birra all’esterno del locale.
Il coltello. «Ho saputo solo in caserma dal magistrato, dopo che i carabinieri mi avevano fermato, cosa fosse successo», ha chiarito l’ex boss che dopo il delitto era andato nel bagno di un locale a lavarsi il sangue e poi era tornato sul luogo del fatto per cercare gli occhiali, «Se avessi saputo di aver fatto qualcosa, avrei buttato il coltello nel tombino della fognatura». E perché lo ha gettato nel cestino, gli ha domandato il pm: «Perché non era mio».
Nella prossima udienza, il 21 febbraio, saranno sentiti altri testimoni della difesa. Discussione e sentenza il 26 marzo.
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