Mafia in Veneto, Fip e gli affari con i clan: «Stratagemmi voluti»

Il pm di Catania: gli arrestati Scaramuzza e Soffiato conoscevano il ruolo dei La Rocca: «Consapevoli che gli appalti venivano frazionati con la finalità di eludere i controlli»

VENEZIA. Il pubblico ministero veneziano Stefano Ancilotto ha già sul suo tavolo tutte le carte raccolte dai carabinieri di Caltagirone sulla «Fip Industriale spa» di Selvazzano e sui rapporti dei suoi vertici con la famiglia mafiosa dei La Rocca. Fino ad ora l’impresa padovana era rimasta fuori dalle due inchieste giudiziarie veneziane, anche se in uno dei suoi lunghi interrogatori Piergiorgio Baita, ex presidente dell’ammiraglia dell’impero industriale della famiglia Chiarotto di Padova (la «Mantovani spa»), aveva parlato dell’azienda di Selvazzano spiegando che era considerata il «gioiellino» tecnologico del gruppo tanto che l’anziano patron Romeo ci aveva messo la figlia Donatella alla presidenza del Consiglio d’amministrazione. Ma Baita aveva aggiunto che più volte la «Mantovani» aveva dovuto coprire i buchi di bilancio della «Fip», che lavorava soprattutto grazie agli incarichi che l’ammiraglia dei gruppo gli procurava. Ora il pm lagunare leggerà attentamente le carte catanesi - soprattutto le intercettazioni - per capire se ci sdiano riferimenti e nomi utili alla sua indagine e a quella della collega Paola Tonini.

I due arrestati veneti, come del resto quelli siciliani, sono stati rinchiusi nelle carceri siciliane e, dunque, verranno interrogati presumibilmente dal giudice Anna Maggiore, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare. Il mestrino Mauro Scaramuzza, amministratore delegato «Fip», e Achille Soffiato, ingegnere padovano e capo del cantiere della strada che stavano costruendo a Caltagirone, devono rispondere di concorso esterno in associazione mafioso perché avrebbero favorito l’infiltrazione della cosca di cui Francesco Gioacchino La Rocca era il capo mandamento provvisorio visto che il padre è in carcere anche per omicidio, nell’appalto da 112 milioni che avevano vinto. In particolare, avevano subappaltato i lavori alla «To Revive» e alla «Edilbeta», due ditte che pur formalmente intestate ad altri facevano capo al giovane bosso di Cosa nostra. E per evitare i controlli antimafia avevano frazionato i lavori con un sistema illecito. «È previsto il divieto di un frazionamento di contratti al di sopra della soglia dei 154 mila euro», si legge nell’ordinanza del giudice catanese, «in subcontratti di importo inferiore , frazionamento detto artificioso ovvero non giustificato da ragioni obiettive, perché altrimenti sarebbe evidentemente elusivo della normativa in quanto impedirebbe alla Prefettura di avviare i relativi controlli». La «Fip», oltre a dare lavori in subappalto, ha anche acquistato dalla «Edilbeta» l’impianto di produzione del calcestruzzo sito al Bivio Molona di Caltagirone, ha stipulato il contratti d’affitto del terreno dove è ubicato l’impianto e ha chiesto la fornitura di lavori di carpenteria.

Stando all’accusa, Soffiato sapeva alla perfezione che il vero padrone delle due ditte siciliane era La Rocca, tanto che in un’intercettazione del 21 giugno 2011 è il bosso a chiedere a Soffiato informazioni sui documenti necessari per il contratto di subappalto: «Per quanto riguarda i nostri documenti tutto a posto?» domanda. E ancora, il 28 settembre dello stesso anno, sempre La Rocca, chiede a Soffiato di dare il nulla osta per il pagamento da parte della banca. Infine, due giorni dopo, sempre il capo della cosca, contatta un altro dipendente della «Fip» per chiedere conferma di quei bonifici.

«Ora, il Soffiato», si legge ancora, «tiene costantemente informato Scaramuzza, che a sua volta dimostra nelle conversazioni intercettate di essere protagonista assolutamente consapevole dello stratagemma e delle finalità perseguite».

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