Ma i cattolici di Marghera sono più avanti di tutti

L’esperienza della parrocchia della Resurrezione alla Cita di Marghera, la più povera di tutte ma la prima ad accogliere rifugiati e senzatetto. Cosa succede a Mestre e il ruolo della Caritas a Mira
don Nandino e la parrocchia della Resurrezione
don Nandino e la parrocchia della Resurrezione

MARGHERA. Il più operativo è don Nandino Capovilla, parroco della Cita, il quale oltre ad aver dato vita a un “home restaurant” in canonica gestito da rifugiati e senza tetto, ha attivato anche il servizio di barbiere “gratuito e aperto a tutti” affidato ogni lunedì mattina a un giovane pakistano di religione cristiana, Arfan, sempre nei locali della parrocchia.

Arfan, il barbiere volontario pachistano
Arfan, il barbiere volontario pachistano

Accoglienza. Ma sono diversi i sacerdoti delle comunità della terraferma che stanno pensando come poter “fare di più” per i profughi e i migranti, sulla scorta di quanto chiesto dal patriarca Francesco Moraglia. Il parroco della Cita ha ottimi rapporti anche con le comunità islamiche di Marghera, quella di via Monzani e quella dei bengalesi e si occupa assieme alla parrocchia di cinque profughi che risiedono in un appartamento alla Cita, tre dei quali arrivati alla fine della scorsa settimana e frutto della collaborazione con la Prefettura: «L’appello di Papa Francesco è fortissimo. Colpisce la sua concretezza e noi abbiamo bisogno di questo. Non si possono più fare discorsi vaghi. Il Patriarca non ci chiede solo di predicare, ci chiede concretezza». «Non abbiamo spazio materiale», ripete, «ma è costante la nostra attività parrocchiale a favore dell’integrazione. Se ogni parrocchia cercasse un appartamento, si potrebbe fare molto: bisogna trovare soluzioni concrete di accoglienza. Essere cristiani in questo contesto è una discriminante, uno spartiacque: se sei cristiano accogli».

Mestre. Anche la parrocchia del Corpus Domini in centro a Mestre, è in prima linea: «Nella nostra parrocchia», spiega don Sandro Manfrè, «c’è uno spazio gestito dalla cooperativa Il Lievito in via Gagliardi che ospita i profughi già da un anno, accogliamo circa una ventina di persone, soprattutto mamme con bambini, c’è anche una famiglia siriana». «Stiamo riflettendo sull’accoglienza diffusa», precisa il vicario foraneo di Favaro Don Massimo Cadamuro, «evitando di costruire centri più o meno grossi, bisogna essere capaci di intessere relazioni, e qui entrano in gioco le famiglie. Le idee sono due: la parrocchia tutor per l’affitto di un appartamento, ossia inserire i profughi in un contesto di famiglie, anche negli spazi comunitari se serve, oppure accogliere dei minori in canonica, sempre seguiti. Poi serve il supporto di una cooperativa o della Caritas, per farli lavorare. In ogni caso ciò che faremo sarà aperto a tutti, italiani, profughi, migranti». La parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, come ha spiegato il parroco don Gianni Antoniazzi in chiesa domenica, non è da meno: «Ospitiamo 13 profughi», spiega, «tre famiglie che risiedono in tre appartamenti della parrocchia, due ortodosse, una musulmana. E poi c’è la scuola parrocchiale per stranieri, che segue 20 persone, la Bottega solidale che sfama migliaia di persone, italiani e non, e i centri Don Vecchi, che danno lavoro a diversi extracomunitari. Infine la San Vincenzo, che cura molti stranieri oltre che italiani».

Caritas. A Mira dal 1997 esiste la Casa San Raffaele, della Caritas diocesana, che si trova in via Riscossa e che da quando ci sono stati i primi arrivi di albanesi, ha iniziato a ospitare stranieri, in tutto conta 24 posti letto, sempre pieni. Spiega Francesco Vendramin: «Attualmente ospitiamo cinque profughi dell’operazione Triton, che avrebbero dovuto avere subito lo status di rifugiato o a essere sentiti in commissione nazionale, ma sono ancora qui, in attesa da un anno. Hanno fatto corsi di lingua, sono impegnati socialmente, sono persino andati ad aiutare le popolazioni colpite dal tornado. Il resto sono detenuti stranieri agli arresti domiciliari, ex minori non accompagnati che hanno computo 18 anni e sono usciti dalle comunità per minori, o ancora malati stranieri che le Asl non riescono a seguire».

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