L’ultimo guardiano del faro: agli Alberoni, dove Claudio indica Venezia alle navi

Dipendente civile della Marina militare, 58 anni, vive con la famiglia nella casetta  che abbraccia il segnalatore luminoso che “comanda” su tutto l’Alto Adriatico 

VENEZIA. Un secondo di luce, due secondi di buio. Per due volte. E poi dieci secondi di buio. La caratteristica di luce del Faro Rocchetta, in località Alberoni del Lido, segnala che stiamo avvicinandoci alla laguna. Dietro a quel faro, uno dei pochi ancora custoditi in Italia, c’è Claudio Cavasin, 58 anni, dipendente civile della Marina militare che con moglie e due figlie vive in questo posto ameno e meraviglioso, ricoprendo l’incarico di custode del faro.



Appena svegliato, il suo primo compito è di controllare l’efficienza degli apparati luminosi. Se vi sono malfunzionamentio alle luci, magari a causa di pioggia vento o nebbia, Cavasin esce in barca con la sua scatola di attrezzi e si dirige a largo verso la meda di segnalazione. Deve occuparsi della manutenzione dell’ottica principale a prismi del faro Rocchetta e dei suoi candelabri, quella da cui dipende l’ingresso allineato delle navi nella bocca di porto di Malamocco, estremità sud del Lido; la manutenzione degli alloggi, compreso il suo che ingloba la base in mattoni della torre; la gestione di diecimila metri quadri di verde ai piedi della diga.



A turno finito, la reperibilità tuttavia continua. In caso di emergenze, lui ci deve essere: il faro è la sua casa.

Del resto, insieme al suo collega Loris De Vidi, è l’ultimo guardiano nella gronda lagunare. Mestiere solitario e dal sapore antico, è in via d’estinzione. Fino al 1975, per dire, tra la pagoda in punta alla diga e il faro Rocchetta vivevano dodici addetti. Avvento della tecnologia, e una scelta di isolamento che ti porta a dimenticare i rumori cittadini in favore delle onde del mare, ne sono le cause.

Ma c’è ancora chi resiste: in Italia, i guardiani sono 71 su 147 fari. Le strutture sono perlopiù storiche. Quello degli Alberoni fu costruito nel 1850 dagli austriaci, che realizzarono anche la diga di ingresso al porto.

Si tratta di un faro (l’etimo è greco e deriva dall’isola di Pharos, primo esempio di illuminazione notturna per favorire la navigazione) di atterraggio, con un’ottica fissa, visibile da un angolo di 320 gradi.

Prima degli anni ’70, i segnalamenti funzionano ad acetilene (gas con bombole di rifornimento da 100 kg). Da quel momento, arrivano le prime luci elettrificate. Oggi le lampade da 1000 watt sono visibili – in condizioni atmosferiche ottimali – fino a 18 miglia, l’accensione è decisa dalla fotocellula che si regola in base alla luminosità dell’atmosfera. Fattore che, insieme allo sviluppo della tecnologia, diminuisce il bisogno di manutenzione e la presenza dell’uomo. Fin dal 1911, la gestione dei fari è di competenza della Marina Militare.



Esistono sei comandi di zona in tutta la penisola italiana: Venezia, che gestisce l’Alto Adriatico da Trieste a San Benedetto del Tronto sotto il comando del capitano di fregata Daniele Verdi; Taranto, La Spezia, La Maddalena, Messina e Napoli (sede della direzione centrale).

Il segno di riconoscimento di ciascuno è dato dall’intermittenza, e cioè dal tempo in cui la luce è accesa e poi spenta.

Agli Alberoni, ad esempio, è così: 1 secondo di luce, 2 di buio, e così ancora 1-2 e infine 10 secondi di buio. Il capitano che entra in porto, confrontando le caratteristiche, saprà allora di trovarsi nel posto giusto.

Esistono varie sottocategorie di segnalamenti: pagode, fanali, boe, mede. Di fari, nella gronda lagunare, ne esistono a Chioggia e a Murano. Il primo, fino a metà degli anni ’90 era all’interno del forte San Felice (realizzato intorno al 1300), ad oggi è posizionato in spiaggia.

Il secondo, invece, ha la funzione di creare un allineamento con l’ingresso della bocca di porto di Lido-San Nicolò. Tutti i faristi ancora in servizio sono civili assunti per concorso dalla Marina Militare. Dal 1994 in poi, tuttavia, si contano sulle dita di una mano quanti hanno deciso di diventare guardiani. Tra questi, appunto, Claudio Cavasin.

Veneziano, ex carpentiere all’Arsenale e volontario della Croce Rossa, nel ’97 decide di cambiare vita. «Le competenze da meccanico ed elettricista – racconta – ce le avevo. Però, sarei venuto solo qui, agli Alberoni, e da nessun’altra parte».

Vivere fuori mano, isolato rispetto al resto della città: la sua è una scelta di vita. «Insieme a mia moglie e alle nostre figlie abbiamo voluto dare un cambio radicale – racconta ancora -. Vero, siamo l’ultima casa del Lido, ma abitiamo pur sempre all’interno di una città meravigliosa, e poco importa se c’è da fare un po’ più di strada per arrivarci. Anche le mie figlie sono d’accordo, e oggi adorano questo posto. Abitiamo in un posto invidiato da tutti, in fondo, dove gli unici rumori che sentiamo sono le eliche delle navi che passano qui davanti. E poi alle difficoltà ci si adatta».—


 

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