L'OPINIONE / E' lui che ha sconfitto i brigatisti
Martire come "testimone": di una eccezionale forza morale
Gianfranco Bettin
«La parola che portava suo marito ha vinto: contro di me, che solo oggi riesco a comprendere qualcosa; contro tutti quelli che ancora oggi non capiscono»: scrisse così alla vedova di Giuseppe Taliercio, uno di quelli che lo avevano assassinato, esattamente trent'anni fa, il 5 luglio del 1981. Non si sa mai se credere davvero a chi dimostra pentimento, rimorso, dopo aver commesso delitti efferati ed essere stato catturato, a chi indora di elogi alle vittime le note che scrive per mostrare un altro lato di sé, più umano di quello reso noto dalle cronache. Tuttavia, e proprio per fiducia non tanto nell'assassino pentito quanto nella sua vittima - nella forza del suo esempio, per quasi due mesi sotto gli occhi degli aguzzini nella cella di Tarcento dove era stato chiuso dopo il rapimento avvenuto a Mestre il 20 maggio - si può questa volta credere a quelle parole comunque tardive. In quella cella - una tenda da campeggio dentro una stanza - la forza morale, che sgorgava da una fonte religiosa purissima, ha certamente scosso la presunta potenza ideologica e politica dei brigatisti. A sconfiggerli concretamente saranno le indagini. A condannarli politicamente sarà l'isolamento quasi totale in cui si sono trovati durante e dopo il sequestro e l'omicidio (il loro terzo e ultimo a Mestre, dopo l'agguato mortale all'altro dirigente del Petrolchimico, Sergio Gori, il 29 gennaio 1980, e dopo quello al commissario di polizia Alfredo Albanese il 12 maggio dello stesso anno). Ma la sconfitta più radicale è certamente quella decretata dal confronto con quest'uomo, sottratto ai suoi famigliari durante un ordinario pranzo in casa, scaraventato in qualche buco, duramente maltrattato, tenuto in angosciosa minaccia di morte e infine ucciso a freddo. Inerme, Taliercio seppe essere più forte delle armi senza le quali i suoi assassini non sarebbero stati nulla. La sua lezione, per questo, travalica la vicenda specifica, pur così tragica e così rilevante nella storia di quegli anni, e si fa esempio universale, come nelle storie dei martiri - cioè, letteralmente, dei "testimoni", in questo caso di una rettitudine e di una fede infrangibili, come ha più volte ricordato uno degli amici più cari di Taliercio, don Franco De Pieri.
Ma vogliamo anche pensare che essa sia segno di un particolare carattere di questa città. Taliercio non vi era nato. Era nato a Marina di Carrara nel 1927 e a Mestre, come tanti, era venuto a lavorare e a vivere dopo la laurea in ingegneria chimica (a Pisa nel 1952). Porto Marghera stava allora diventando un grande polo industriale, quello in cui si inventavano i materiali base della modernità, a partire dalle plastiche. Era la Marghera, era l'industria, di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica 1963. Ed era la città, il polo industriale, che pagava a questa modernizzazione - di cui tutto il mondo sembrava godere i vantaggi - anche prezzi carissimi, in fatica, salute e ambiente. Taliercio fu uno di quelli che, nel suo ruolo, rese questo sforzo di trasformazione e di crescita più umano e più equo. Lo si è saputo dopo, per testimonianza diretta dei colleghi, degli stessi lavoratori. E' stato, perciò, un uomo chiave di questa nostra storia sociale e industriale. Trent'anni sono passati dalla sua morte. Molti di più da quando questa storia è incominciata, a metà del secolo scorso, o ancora più indietro. I fili che collegano queste vicende si intrecciano intorno a un delitto odioso e in un momento in cui si stava di nuovo giungendo a una svolta. Incominciava la lunga, profonda crisi di Porto Marghera, i cui strascichi agiscono tuttora. Finiva, per fortuna, la peggiore e più pericolosa stagione del terrorismo. La città è molto cambiata, da allora, anche se di quella Mestre, di quella Porto Marghera, non si è certo persa la memoria. Anzi, molto ne resta, nel bene e nel male. E questo ci dice che in quegli anni, spesso difficili, a volte cupi, perfino tragici, qui si è incominciato a sviluppare una coscienza e una vicenda condivise. Questa città, la cui storia era stata trascinata e come dissolta nella tempesta di una modernizzazione sregolata, nelle prove più dure ha ritrovato un senso di sé, di come era fatta, di cosa aveva vissuto, di chi erano i suoi abitanti. Erano gente di qui e gente di altrove, tanta, tantissima, venuta, come Giuseppe Taliercio, che possiamo perciò considerare uno dei veri padri fondatori della Mestre attuale, a costruirsi una vita e a costruire una storia, una comunità nuova.
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