L'intuizione dei due avvocati vale la libertà per Monica

MESTRE. La clamorosa confessione è iniziata alle sei di pomeriggio del 24 febbraio e si è conclusa alle 5 di mattina: Susanna Lazzarini - in carcere per aver strangolato il 29 dicembre l’anziana amica di famiglia Francesca Vianello, per un prestito negato di 100 euro (si disse) per i regali di Natale ai figli - ha ammesso davanti alla pm Lucia D’Alessandro di essere stata lei, sempre lei, ad uccidere anche Lida Taffi Pamio, l’anziana mestrina massacrata nel suo appartamento di viale Vespucci il 20 dicembre 2012.
Picchiata, strangolata, accoltellata, soffocata con un pezzo di carta ficcato in gola. Per quell’omicidio era in carcere da oltre 2 anni Monica Busetto, l’operatrice sanitaria vicina di casa della Pamio, condannata dal Tribunale di Venezia a 24 anni e 6 mesi di carcere e in attesa del processo d’appello, in calendario il 9 marzo. Ieri pomeriggio la donna è stata immediatamente scarcerata dalla Corte d’assise d’appello - su richiesta dello stesso procuratore generale Antonino Condorelli - con l’obbligo, però, di restare nel Comune di Venezia e di presentarsi a giorni alterni in commissariato. Formalmente è ancora imputata per omicidio volontario, ma si profila un clamoroso scambio di persona. Incredibile la serie di eventi che ha portato alla svolta in un caso ormai “chiuso”.
L’inizio. La prima intuizione è degli avvocati difensori Alessandro Doglioni e Stefano Busetto: «Merito dei giornalisti», raccontano i legali, «che dopo l’arresto di Susanna Lazzarini avevano intervistato la madre, che aveva dichiarato: «Mi sono morte due amiche, assassinate». Ci siamo ricordati del suo nome particolare, Ninfea, e nelle 10 mila pagine degli atti del processo abbiamo trovato la sua testimonianza: la signora raccontava di aver vissuto nel condominio di viale Vespucci, dove abitava Lida Taffi Pamio, dal 1962 al 1994, di essere sua amica, di giocare con lei a tombola. Lì è nata Susanna Lazzarini. Possibile ci fossero due omicide in uno stesso condominio? Ne abbiamo parlato subito con la Alessia Tavarnesi titolare dell’omicidio Vianello: era un rischio, perché il caso era chiuso e nulla sapeva dell’indagine Pamio». La pm Tavarnesi contatta subito la collega D’Alessandro, che aveva “ereditato” da un altro pm (trasferito) il fascicolo Pamio, ottenendo dal Tribunale la condanna di Busetto, sulla base - soprattutto - di un’infinitesimale Dna dell’anziana, trovato dalla Polizia scientifica su una catenina d’oro spezzata, che l’infermiera teneva in un sacchetto con altre piccole gioie.
Il Dna che inchioda. È metà gennaio, la svolta arriva proprio dalla Scientifica: su un interrutore vicino alla porta d’uscita di Lida Pamio era stata trovata una traccia di sangue della vittima mischiata al Dna di uno sconosciuto. Un controllo e il riscontro è immediato, netto: quel Dna da tre anni senza un “padrone” appartiene in maniera certa a Susanna Lazzarini. Pochi giorni dopo la confessione: piena, lunga, dettagliata e immediata. Anche se il movente resta poco chiaro: «Sul punto sono in corso accertamenti, non abbiamo certezze», commenta la pm D’Alessandro, «nel movente c’è una certa irrazionalità in una confessione per il resto puntuale».
Errore giudiziario? A dare la notizia, davvero clamorosa, è stato ieri il procuratore generale Antonino Condorelli, affiancato dalle pm della Procura Tavarnesi e D’Alessandro e dal pg Cicero, diramando anche un comunicato firmato con il procuratore della Repubblica Luigi Delpino. Come spiegare la condanna di Busetto e la confessione di Lazzarini senza parlare di errore giudiziario? La scarcerazione della donna e il permanere dell’accusa di omicidio a suo carico? Il magistrato dà la notizia della confessione di Lazzarini, non fornisce molti particolari di merito, ringrazia i colleghi magistrati e la Mobile per essersi attivati, «con grande onestà intellettuale», e specifica che, al momento, l’accusa di omicidio volontario nei confronti di Susanna Lazzarini è “in concorso” perché «c’è un riscontro certo della presenza della Lazzarini in casa di Lida Pamio e una piena confessione, ma non c’è sovrapposizione di prove con quelle a carico di Monica Busetto». Il riferimento è a quel Dna dell’anziana trovato in minuscole quantità sulla collana spezzata - contestato dalla difesa come “contaminazione” - che ha convinto i giudici del Tribunale di Venezia a condannare Busetto. «Siamo al servizio della collettività per accertare la responsabilità della giustizia umana che, appunto, è umana e fa di tutto per non sbagliare: va apprezzato il grande senso di responsabilità dimostrato», conclude Condorelli.
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