L’intervista a Paolo Baratta: «Coerenza, qualità e coraggio»
VENEZIA. Al suo decimo festival, infine, il presidente della Biennale Paolo Baratta può iniziare a rilassarsi. Dopo aver raccolto una Mostra del cinema che sembrava sciacquata nel provincialismo, metabolizzata l’onta del “buco” e difeso Venezia dalla concorrenza assassina di Cannes, si gode gli ultimi giorni di sole caprese prima di sbarcare al Lido dove, disfatta la valigia dello smoking, nelle prossime due settimane stringerà un milione di mani, arerà chilometri di red carpet, ingollerà discutibili tartine e sovrintenderà al multiforme consorzio festivaliero. La pazienza, che in due lustri di Mostra del cinema spalmati in tre mandati di presidente dev’essergli stata la compagna più fedele e sollecita, lo precede anche questa volta; salvacondotto e parafulmine perchè, come ripeteva Baratta fino a qualche tempo fa, «un presidente della Biennale deve saper far bene molte cose ma, soprattutto, deve sopravvivere alla Mostra del cinema». Ora non lo dice più. Arrivato indenne alla cifra tonda, omaggia il passato con un cenno di cortesia e guarda a Venezia70 ricontando mentalmente i 4.900 posti che, sala dopo sala, è riuscito a ottenere.
Dieci anni dopo, è sopravvissuto bene?
«Guardi, il festival del cinema presenta sempre problemi particolari perché è un po’ teso, carico di aspettative e, in aggiunta, la concorrenza è sempre più agguerrita».
La sua prima Mostra?
«Sembrava una partoriente in stato di perenne gestazione. Era arenata in fondo a uno spirito fortemente ideologico e ideologicizzato, pervasa da un’ansia deformante sul cinema italiano. Era evidente che doveva assolutamente togliersi dal provincialismo e iniziare a diventare internazionale. Senza la migliore produzione americana un festival non può chiamarsi internazionale».
La sua ricetta?
«Tecnologia di altissimo livello, nuove sale, riduzione del numero dei film. E ancora, un festival agevole e trasparente, la valorizzazione della sua storia e delle sue sedi, un rafforzato senso di autostima. L’importanza della stampa, il restauro dei vecchi film e l’investimento sulle nuove generazioni con Biennale College. Il cinema è arte e industria; per questo non invidio i direttori del festival».
Perché?
«Perché devono essere costruttori di dighe e cacciatori di castori insieme».
La diga di Venezia70?
«La coerenza, la qualità e il coraggio. Il disegno di una Mostra del cinema deve essere coerente. L’attrattiva di una Mostra aumenta quando si mette la qualità al centro e non ai margini. E poi c’è il coraggio di scegliere».
Venezia70 si annuncia come il festival sulle crisi. C’è il rischio che sia un po’ ombroso?
«Se questo è il mondo, noi siamo un faro di luce. Il mondo ci dice che la crisi è davvero crisi quando segna la perdita di fiducia nella società. È giusto che il cinema riproduca questo fenomeno. Sarebbe drammatico il contrario. Soprattutto, il nostro pubblico può essere certo che non vendiamo prodotti avariati o occultanti».
C’è un film del prossimo festival che aspetta con particolare curiosità?
«Posso dire che, tra tutti, questo è il festival che presenta figure che mi sono meno immediatamente note. Ci andrò quindi con l’interesse di un giovane presidente di Biennale».
Un augurio a Venezia70.
«Auguro che i veneziani e i lidensi capiscano tutti i nostri problemi, le nostre ragioni e i nostri sforzi. Auguro, spero, che ci diano una mano perché, aiutando noi, aiutano anche se stessi».
Intende dire che i veneziani non partecipano abbastanza?
«Intendo dire che il festival deve essere gradevole e che per essere gradevole tutti, dagli albergatori ai motoscafisti, devono fare la loro parte. La Mostra del cinema non è una rendita, è una battaglia di concorrenza e tutti insieme, dal gelataio al sottoscritto, siamo esposti al giudizio del mondo. Quindi se il gelato è cattivo ne soffre tutto il festival».
Stato d’animo della vigilia?
«Tranquillo. Anche di fronte agli imprevisti. Dopo dieci festival ci mancherebbe».
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