«L’inchiesta sul rogo della Fenice fu risolta grazie alle nuove tecnologie»
l’intervista
Felice Casson, lei ha condotto le indagini per scoprire le cause dell’incendio della Fenice. Che cosa ricorda di quella notte?
«La sera del 29 gennaio 1996 mi trovavo a casa a San Stae. Ero di turno nel caso di un’urgenza, come poi è avvenuto. A un certo punto mi è arrivata voce di un incendio alla Fenice, ho chiamato la Digos e siamo andati in barca a verificare. Quando siamo giunti in campo San Fantin, poco prima delle 21, si cominciavano già a vedere le fiamme, ma non si capiva ancora l’entità dell’incendio. C’erano già alcune persone, molte incredule e impaurite, altre che riprendevano il fuoco con i primi mezzi, come le telecamere. Si sentivano anche delle grida provenire da chi abitava nei palazzi limitrofi perché c’era paura che il fuoco intaccasse i palazzi vicini. Nell’aria c’era molta apprensione, i pompieri erano impegnati a fare il possibile per spegnere le fiamme e a tenere lontana la gente che accorreva per vedere cosa succedeva. In supporto ai vigili del fuoco è arrivato anche un loro elicottero, ma c’era il rischio che, buttando acqua sulle fiamme, crollasse il tetto e risucchiasse il mezzo. Dopo poco il soffitto è venuto giù comunque, provocando un innalzamento improvviso delle fiamme. In quel periodo si era appena conclusa l’indagine preliminare sul Petrolchimico. Mi era capitato di vedere fughe di gas e fiamme a Porto Marghera, ma pur essendo pauroso vedere fiamme al Petrolchimico, non lo era come vederle in mezzo ai palazzi di Venezia. Sulle 23, quando ho capito che la città era fuori pericolo, sono andato in Questura a San Lorenzo per predisporre il sequestro del Teatro (...)».
Da dove ha iniziato?
«Ho iniziato a raccogliere informazioni dalla mattina dopo. In quel momento non avevo nessuna idea sulle possibili cause. È emerso comunque subito, dalle prime testimonianze dei lavoratori della Fenice, che all’interno del Teatro, sottoposto ad ampi lavori di manutenzione, c’era una situazione di grande abbandono, in termini di organizzazione e di sorveglianza. Ho chiesto al fotografo del Teatro, Giuseppe Bonannini, incaricato di documentare ogni giorno l’avanzamento dei lavori, le immagini per farmi un’idea di come fosse all’interno. Abbiamo recuperato con la polizia giudiziaria centinaia e centinaia di fotografie e di video, sia esterni che interni, sia precedenti che successivi all’incendio. Mi ha colpito lo stato di incuria della struttura, che da un anno ospitava molte ditte impegnate in più mansioni. Direi che la situazione interna al Teatro durante i lavori era di vero e proprio caos. Evidenti erano la confusione e la commistione massima di tendaggi, legnami, vernici, pitture, materiali infiammabili di ogni genere. Tra queste ditte c’era la Viet, quella dove lavoravano i due elettricisti che poi sono stati condannati, che operava in subappalto della ditta Argenti di Roma per realizzare impianti elettrici. Quasi subito ho creato una squadra di consulenti tecnici formata da cinque persone esperte (Leonardo Corbo, Ludovico Osio, Amedeo Torzo, Alfio Pini e Giovanni Sturaro) con competenze diversificate e con il compito di individuare le cause dell’incendio. Ricordo bene che, già dopo il primo sopralluogo e dopo aver visionato la prima documentazione, mi parlarono della situazione caotica in cui si trovavano i vari ambienti del Teatro prima dell’incendio, da mettersi le mani nei capelli».
In un primo momento si pensò anche all’ipotesi mafiosa. Su quali basi?
«Mi erano giunte delle segnalazioni di una possibile collaborazione tra la mafia del Brenta di Felice Maniero e il boss di Cosa Nostra Pietro Aglieri. All’epoca si stava ancora indagando per l’incendio al Teatro Petruzzelli di Bari, avvenuto nel 1991, e si erano verificati diversi furti di opere d’arte di rilievo, attribuiti alla grande criminalità. Comunque, dopo aver sentito gli esperti antimafia e interrogato Felice Maniero, abbandonammo questa strada».
Quando la svolta?
«Nella fase iniziale l’ipotesi prospettata era di incendio colposo. Tra gli indagati c’era una decina di persone accusate di non aver tenuto il Teatro a norma e, di conseguenza, di aver indirettamente favorito il diffondersi delle fiamme. Otto di questi vennero rinviati a giudizio inclusi Massimo Cacciari, non in quanto sindaco, ma come presidente del cda della Fenice, e l’allora sovrintendente Gianfranco Pontel. L’accusa era sorta soprattutto perché a metà dicembre 1995, e ricordo che l’incendio è del 29 gennaio 1996, il consiglio di amministrazione della Fenice aveva all’ordine del giorno la discussione della relazione dell’ingegner Stupazzoni di Bologna, incaricato proprio di valutare i rischi d’incendio nel Teatro, giusto nel periodo dei lavori. E la relazione già illustrava la pericolosità di quella situazione. Invece la discussione sul punto venne rinviata perché era quasi ora di pranzo. E non fu più ripresa. Arrivò prima il fuoco. La svolta nelle indagini però avvenne a fine giugno 1996, quando i periti mi dissero che, secondo le loro analisi, l’incendio era di natura dolosa. Depositarono la loro relazione dopo l’estate. Questo cambiava completamente l’impianto delle indagini. Fino a quel momento non avevamo prove che l’incendio fosse stato appiccato volutamente e procedevamo considerandolo un incendio colposo. Da un punto di vista giuridico, si discute da sempre se un comportamento di natura dolosa escluda il nesso di causalità con ogni forma di responsabilità colposa. La giurisprudenza prevalente ritiene di sì e infatti il Tribunale avrebbe poi assolto gli accusati di incendio colposo. In pratica i periti mi dissero che avevano individuato due focolai in due posti diversi del Teatro, uno nel Ridotto del Loggione e l’altro nel Soffittone. Secondo le perizie non era quindi possibile che l’incendio fosse scoppiato casualmente e nello stesso momento, tra le 20,20 e le 20,35, in due punti così diversi del Teatro, dove in teoria non doveva essere presente materiale infiammabile. Quindi c’era stata una mano... ma di chi? (...)».
Che mezzi utilizzò?
«La tecnologia è stata fondamentale per individuare i colpevoli. Abbiamo utilizzato degli strumenti innovativi per quegli anni, come la localizzazione dei cellulari tramite le celle telefoniche, alcune particolari cimici e la ricostruzione tridimensionale della dinamica dell’incendio. Questi dispositivi, uniti al lavoro di esperti molto bravi e alle indagini della polizia giudiziaria, ci hanno aiutati a dimostrare che l’incendio era stato appiccato dall’elettricista Enrico Carella, mentre il cugino Massimiliano Marchetti faceva da palo. Per la prima volta in un’indagine mi sono rivolto alle compagnie telefoniche per chiedere i tabulati e vedere chi si trovava nel Teatro. Oggi questa è una prassi abituale se non ovvia, ma allora mi ricordo che dovetti insistere perché erano in difficoltà e non me li volevano dare. Alla fine ce li consegnarono e, dopo aver escluso altri sospetti, scoprimmo dalle celle telefoniche che i due dipendenti della ditta Viet ci avevano raccontato il falso e che si trovavano in Fenice e non dove avevano riferito, uno al Lido dalla fidanzata e uno in terraferma. L’uso della tecnologia segnò una novità nelle indagini. Utilizzammo alcune cimici che, per gli anni Novanta, erano davvero innovative. È grazie a una di queste cimici, piazzata nella Fiat 126 di Marchetti, che intercettammo la famosa frase per quattro schei el gà brusà ea Fenice, pronunciata dalla fidanzata di allora. Il contributo di cimici e tabulati ci aiutò a stringere sempre di più il cerchio e già nel gennaio 1997, a un anno dall’incendio, i sospetti sui due elettricisti erano più che fondati. A maggio, dopo qualche mese di indagini seguendo la pista dolosa, erano in carcere in custodia cautelare». (...) —
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