L’erba alta si riprende i terreni contaminati

Nel ventre di Porto Marghera: difficile individuare i settori ancora in attività tra capannoni dismessi, impianti fermi e i fantasmi di un passato di morte

MARGHERA. L’erba è alta e circonda quel che resta delle condotte e degli impianti. L’erba copre tutto e avanza pure sull’asfalto. L’erba è il simbolo della morte del Petrolchimico. La natura si riprende lo spazio che l’uomo le aveva strappato un secolo fa. Parte dall’erba il reportage all’interno di quello che resta del Petrolchimico, seicento ettari tra laguna e Marghera. Il primo grande Petrolchimico d’Italia e uno dei più importanti in Europa, morto dopo una lunga agonia e che nei tempi di massimo splendore rappresentava, insieme all’indotto, il 20 per cento del Pil della zona.

Della “portineria 3”, simbolo per antonomasia dello stabilimento per la grande scritta Montedison prima ed Enichem dopo, che si vedeva percorrendo via Fratelli Bandiera, restano i manufatti in cemento. Sono intrappolati da barriere in ferro. Da questo varco è transitato un paese di chimici chi in sella a migliaia di biciclette o motorini.

Negli anni Ottanta quando gli impianti funzionavano al massimo qui dentro c’erano diecimila lavoratori diretti, altri ventimila lavoravano indirettamente per le aziende della chimica. La gran parte di questo popolo passava di qui, tre turni per coprire l’intera giornata e fare in modo che gli impianti non si fermassero mai.

Qui dentro tutto sembrava non avere fine ed era tenuto come un giardino dalla Servizi Porto Marghera, società che si occupava di tenere l’erba tagliata come i prati all’inglese, di chiudere ogni piccola buca che si formava sulla rete di strade interne, di pulire i canali di scolo e cambiare le lampadine ai lampioni. Tutto era in ordine all’epoca. E poi quando doveva arrivare, in visita, qualche a.d. di azienda ecco che si usava anche la vernice per far brillare ringhiere e porte. Adesso erba e ruggine ovunque e asfalto rialzato dalla gramigna che lenta e inesorabile avanza.

I tempi dei diecimila sono lontani. Ora se complessivamente si raggiungono i milleduecento diretti è grasso che cola. Molti degli stabilimenti sono stati abbattuti altri restano in piedi vuoti, chiusi e transennati come la ex area Manutenzione, dove arbusti e alberi hanno preso il posto di tubi e piazzali.

Era uno dei simboli della ricchezza di questa industria. Da qui uscivano gli attrezzi i guanti, le tute, le scarpe e tutto quanto serviva alle squadre dei manutentori e agli operai per lavorare. Ma da qui usciva anche tanto materiale che finiva fuori dal Petrolchimico, intascato dagli operai che lo regalavano agli amici degli amici. C’erano più tute della Montedison fuori che all’interno degli impianti. Per non parlare dei guanti o degli attrezzi.

L’ammanco diffuso era talmente un fenomeno preoccupante che ad un certo punto la direzione del Petrolchimico ha deciso di fare dei controlli a campione a fine turno. All’uscita della “portineria 3”, al passaggio dei lavoratori a campione si sentiva un campanello suonare che indicava chi da controllare. I furti a quel punto sono diminuiti.

Proprio davanti all’ingresso tre il tubi delle condotte aeree, che all’interno dell’area correvano per duecento chilometri, sono assediati da erba e arbusti. In parte sono stati staccati e si vedono i tralicci, che li sostenevano, spogli innalzarsi al cielo.

Non lontano resta lo scheletro di una torcia con i tubi che portavano le sostanze da bruciare nel caso di fuori servizio. Intorno ancora tubi che corrono vuoti su vie aeree o escono da sotto terra perfettamente paralleli.

Il viaggio lungo i sessanta chilometri di strade tagliate a volte da binari ferroviari è anche ripercorrere la storia della morte lenta dello stabilimento. Ritornano alla memoria gli impianti del Caprolattame, del Pvc e del tragico Cvm.

Ritornano alla mente questi nomi legati alle proteste in strada, agli striscioni con riportate le sigle degli stabilimenti che sfilavano sul ponte della Libertà, sulla tangenziale di Mestre o magari in corteo a Roma. L’impianto del Caprolattame, il primo a essere dismesso, a metà degli anni Novanta, è uno scheletro circondato da nastro bianco e rosso e da transenne.

L’intreccio di tubi e travi in acciaio ha segni di ruggine e incombe sulla strada che gli passa sotto a pochi metri. Di notte la rete di illuminazione che copre l’intera area gli regala ancora luce come lumini sulle tombe in cimitero. Da decenni in quel groviglio di ferro non c’è più un grammo della sostanza che serve a produrre il nylon.

Un fantasma nero, non lontano dalla “portineria 4”, ricorda la vicenda della nave Jolly Rosso e dei suoi veleni che arrivavano dal Libano, delle navi a perdere da affondare con i loro carichi di morte.

Infatti in questo capannone vennero stoccati i rifiuti che la nave trasportava in attesa che venissero inertizzati. L’edificio ha perso qualche pezzo e il portone d’ingresso è bloccato da una transenna. Tutt’intorno erba e arbusti.

La stessa erba che alta nasconde l’ingresso dello stabilimento del Cvm. Lo stabilimento delle morti per chimica, del lungo processo e della sofferenza che da decenni viene garantita a centinaia di famiglie di operai che lì dentro hanno lavorato per anni.

Davanti al Cv24, uno degli edifici della morte, c’è un transporter per pallets abbandonato e sommerso dall’erba. È il simbolo della resa, dell’abbandono e della morte del Petrolchimico. Le rive del canale Brentella non sono più curate, come al tempo in cui gli operai si fermavano a pescare i cefali.

Era una delle contraddizioni del tempo: tutt’intorno stabilimenti chimici e loro con la canna come lungo un canale inglese. Intanto altre migliaia di lavoratori si spostavano su motorini e biciclette messi a disposizione dallo stabilimento. Bici che hanno fatto ricco un meccanico di Marghera che aveva la loro manutenzione. Ora non ci sono più biciclette né operai pescatori, c’è solo erba alta a coprire anche i ricordi.

 

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia