L’equilibrio mafia-politica garantito da Ciccio La Rocca

Chi è il boss di Caltanissetta, ora in carcere, e il potere criminale in Sicilia della sua famiglia. Disse di Falcone: «Un cornuto che se la meritava», ma ciò non gli impedì di continuare a vincere appalti pubblici
Un' immagine d' archivio del 1997 dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorre oggi il diciottesimo anniversario della strage di via d'Amelio in cui fu ucciso il giudice antimafia Paolo Borsellino, 57 giorni dopo quella di Capaci in cui morì Giovanni Falcone.
Un' immagine d' archivio del 1997 dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ricorre oggi il diciottesimo anniversario della strage di via d'Amelio in cui fu ucciso il giudice antimafia Paolo Borsellino, 57 giorni dopo quella di Capaci in cui morì Giovanni Falcone.

MESTRE. La passione del clan mafioso di Francesco La Rocca, detto Ciccio, boss di Caltagirone, oggi settantenne, nato e cresciuto criminalmente a una decina di chilometri da Catania, è sempre stato il cemento e la politica. E il collante fra questi due elementi che sembrano apparentemente lontani e diversi, è continuata ad essere la mafia. In questo caso Cosa nostra riesce a mettere insieme persone e cose e a farne un'arma da utilizzare contro gli imprenditori che rispettano la legge e per inquinare l'economia legale.

Ciccio La Rocca ha dato vita negli anni Ottanta nel calatino alla famiglia mafiosa che prende il suo nome. Da alcuni anni è detenuto perché condannato definitivamente per associazione mafiosa. Sul territorio siciliano, e non solo, ha lasciato molti eredi e uomini di fiducia che stanno portando avanti gli affari della famiglia, affari non sono sempre legali. Gli inquirenti lo definivano come «un soggetto in grado di garantire, per il prestigio criminale acquisito e per le particolari doti di mediazione possedute, l'equilibrio così accortamente perseguito». L'equilibrio fra mafia e politica. Il vecchio boss ha sempre vantato solidi rapporti con i corleonesi e in particolare con Bernardo Provenzano.

Molti “pizzini” trovati nel covo in cui il vecchio padrino venne arrestato nel 2006 erano indirizzati anche a La Rocca. E il mafioso calatino che si faceva passare anche per imprenditore e amava corrompere i politici, in alcune intercettazioni fatte all'inizio del 2000 definiva Provenzano «uno di quelli che ha la testa sulle spalle». E non lesinava commenti nemmeno contro chi è stato vittima della mafia. Le piccole cimici piazzate dagli investigatori in alcuni ritrovi utilizzati dal boss di Caltagirone hanno anche registrato i suoi commenti sull'attentato al giudice Giovanni Falcone, definendolo «un cornuto che se la meritava». Basterebbero queste poche frasi per chiudere il profilo di questo mafioso e far comprendere di che pasta è fatto il capo del clan La Rocca.

Basterebbe ricordare pubblicamente il suo giudizio su Falcone per far accendere un semaforo rosso ogni qual volta un cittadino onesto, un pubblico amministratore imparziale o un politico pulito lo incroci sulla sua strada e lanciare l'allarme: uomo da evitare. Anche solo per evitare di stringergli la mano, solo per una questione morale. E invece no. I politici e gli aspiranti politici sono andati a cercare La Rocca per ottenere la sicurezza, con il carico di elettori che può muovere, di essere eletti o rieletti ai consigli comunali e a quelli regionali.

L'allarme rosso non è servito nemmeno a quei pubblici amministratori che gli hanno dato larghi spazi di manovra per accaparrarsi appalti pubblici per milioni di euro. E consentito i subappalti. A discapito di imprenditori onesti che rispettano la legge e pagano le tasse. Pochi mesi fa un collaboratore di giustizia raccontava che Francesco La Rocca «teneva in mano il presidente della regione siciliana Salvatore Lombardo e lo giostrava come voleva lui, lo teneva in mano sua. Ciccio La Rocca aveva in mano mezza Sicilia e voleva riunire tutta la Sicilia».

Ecco, secondo un pentito questo mafioso “giostrava” l'ex governatore siciliano, l'autonomista alleato di Silvio Berlusconi. Lombardo oggi è sotto processo a Catania e per lui la procura ha chiesto al giudice la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Ai magistrati il pentito racconta di incontri avvenuti durante la campagna elettorale per le elezioni regionali del 2006 con politici e candidati e ritorna sempre su Francesco La Rocca, che è ben ammanicato a Catania e ricostruisce il rapporto che ci sarebbe stato con Lombardo: «In cambio, se c’erano infrastrutture da realizzare a Caltagirone, saremmo stati i primi a beneficiare di questi lavori».

Alla commissione antimafia gli inquirenti catanesi per delineare il profilo di Ciccio La Rocca dicevano: «Abbondanti sono i segnali, cristallizzati anche in risultanze di indagini, indicativi dell'elevata caratura delinquenziale di Francesco La Rocca, non solo con riferimento agli ambiti palermitani: unitamente al figlio Gioacchino «Gianfranco», e ai nipoti Gesualdo «Aldo» e Gaetano Francesco «Franco», (secondo quanto emerso nelle indagini «Chiaraluce», «Grande Oriente», «Orione» e «Dionisio») gode di grande ascendente criminale». Da padre in figlio. Sono storie, fatti e personaggi che tornano ancora adesso a dominare il mondo della mafia imprenditoriale e della politica collusa.

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