L’arte che resiste alla guerra: alla Biennale di Venezia l’installazione dell’Ucraina

Il viaggio impavido di Maria Lanko da Kiev con 78 imbuti di bronzo, una parte dell’opera “Fountain of Exhaustion, Acqua Alta”

VENEZIA. È il 24 febbraio quando lo staff che stava organizzando il padiglione ucraino alla Biennale di Venezia annuncia la resa sul suo profilo Instagram. «Al momento non siamo in grado di continuare a lavorare sul progetto a causa del pericolo a cui siamo esposti». Alle cinque di quel mattino la Russia ha invaso l’Ucraina, nessuno si sente in grado di garantire la presenza dell’opera che rappresenterà il Paese all’Esposizione Internazionale d’Arte che aprirà le porte due mesi dopo. Lasciano però aperto uno spiraglio. «Se la situazione cambierà e se sarà sicuro spostarsi, viaggiare e arrivare a Venezia, allora ci saremo. Non possiamo confermare che il nostro progetto sarà completo, ma vi promettiamo che faremo il possibile per esserci».

Maria Lanko durante il viaggio in auto dall'Ucraina
Maria Lanko durante il viaggio in auto dall'Ucraina

Quello che il comunicato dello staff non dice è che la sera stessa, quando le bombe già squassavano le strade di Kiev, Maria Lanko ha caricato la sua auto ed è partita. Dentro aveva 78 imbuti di bronzo, una parte dell’opera “Fountain of Exhaustion, Acqua Alta”, una struttura di tre metri di altezza per tre metri di lunghezza, una piramide di imbuti con due cannelli disposti in modo tale da far colare l’acqua dal più alto al più basso lasciando arrivare solo poche gocce alla base. Secondo l’autore, l’artista ucraino Pavlo Makov, si tratta di una lucida metafora dello sfinimento globale, «Non rappresenta solo l’esaurimento delle risorse terrestri, ma anche l’esaurimento per la pandemia, la spossatezza causata dai social media e lo sfinimento provocato dalle guerre», spiega Makov.

Maria Lanko è una delle curatrici dell’opera insieme con Lizaveta German e Borys Filonenko. Quando il 24 febbraio decide di caricare l’auto e di sfidare le bombe l’opera rappresenta anche qualcos’altro di molto prezioso, la voce dell’Ucraina alla Biennale di Venezia, l’opera destinata a rappresentare il suo Paese in una delle più prestigiose rassegne d’arte contemporanea internazionali. Non può non esserci.

Maria Lanko lascia in Ucraina la parte più ingombrante della struttura ideata da Pavlo Makov e si mette alla guida di sera in una Kiev deserta, mentre le traiettorie dei colpi lanciati sulla capitale squarciano il buio. Con lei in auto ci sono il cane, un collaboratore e i 78 imbuti di bronzo, l’anima dell’opera.

«Ci avevo già pensato nei giorni precedenti, quando era chiaro che la situazione stava precipitando. Ero l’unica del gruppo che si occupa della realizzazione dell’opera ad avere l’auto e a poterla guidare. Quando il nostro Paese è stato invaso abbiamo capito che era arrivato il momento. Non avevamo la minima idea di quale percorso seguire, ci siamo soltanto messi al volante e siamo partiti», spiega.

Hanno impiegato un’ora soltanto per uscire da Kiev scegliendo i percorsi più sicuri e meno trafficati. La prima notte si sono fermati in un bed and breakfast, all’alba si sono messi di nuovo in moto. Il viaggio attraverso l’Ucraina in guerra è durato più di una settimana, circa 300 chilometri e dieci ore al giorno in media, tra strade interne, posti di blocco, notti trascorse dove capitava, i consigli a distanza degli amici su come scegliere le località più sicure. «Abbiamo lasciato perdere il confine con la Polonia, era troppo affollato, abbiamo saputo che si aspettavano tre giorni per uscire. Ci siamo diretti verso la Romania – racconta -. Avevamo fretta di arrivare in una zona sicura». Al confine nessuno ha avuto obiezioni a lasciar passare 78 imbuti di bronzo, da quel momento la strada da percorrere era ancora molta ma le bombe alle spalle.

Era l’unica a poterlo fare, Maria Lanko. E l’ha fatto. Ha salvato l’opera che rappresenterà l’Ucraina alla Biennale di Venezia. Non poteva farlo Pavlo Makov che in quelle ore si trovava a Kharkiv, la sua città. Quando erano iniziati i bombardamenti si era nascosto in un centro di arte contemporanea della sua città, una struttura in cemento armato che gli sembrava sicura. «La mia origine è russa, sono nato a San Pietroburgo quando si chiamava Leningrado ma vivo in Ucraina da quando avevo tre anni, mi sento ucraino, non mi piaceva l’idea di scappare e abbandonare il mio Paese». E a chi gli chiedeva se la sua opera avrebbe partecipato alla Biennale, rispondeva. «Ora non posso muovermi ma se ci sarà una possibilità, sì, ci sarò».

Poi però Kharkiv è diventata uno dei bersagli su cui l’esercito russo si è accanito. Pavel Makov si è prima trasferito in campagna poi ha convinto la madre di 82 anni a seguirlo e, anche lui, ha varcato il confine con la moglie dopo un avventuroso attraversamento dell’Ucraina. Da più di una settimana si trova tra Venezia e Milano per seguire i lavori che permetteranno all’opera di essere completata con il sostegno della Biennale e di una rete di persone che non gli ha mai fatto mancare il sostegno. L’avevano promesso il 24 febbraio, faremo il possibile. E l’hanno fatto. L’Ucraina sarà alla Biennale di Venezia al completo. —

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