Lara Favaretto musa a Kassel «Dal ferro le mie Reliquie»
di Barbara Codogno
«Hello». Risponde in inglese al telefono Lara Favaretto, artista dal carattere problematico, a detta di molti che così la descrivono. «Sono molto stanca» spiega con una voce che fa presagire il poco spazio riservato all'ingenuo interlocutore che tanto vorrebbe invece interagire con la rappresentazione del mondo, con l'arte sì, di questa giovane artista trevigiana che con la sue opere ha conquistato praticamente il mondo intero, esponendo da Torino a Shangai, da Berlino a Sidney. Ma la fama di "enfant terrible" dell'arte contemporanea (termine abusato e piuttosto banale, ammettiamolo, che non le piacerebbe affatto) in realtà la precede soltanto. Quando, invece, c'è da raccontare e spiegare, Favaretto non si risparmia. Allora la voce distaccata, di una che sembra stare sulle sue, si fa accogliente e si apre al dialogo. Perché, del resto, se l'arte - e l'artista! - non dialogasse veramente con chi ha di fronte, che senso potrebbe mai avere, oggi? Lara snocciola con giusta distanza le sue ultime, importantissime, fatiche. Kabul, Afghanistan. Dove si è occupata di un progetto in connessione con il lavoro che ha esposto a Documenta, Kassel, Germania. E' la prima volta che Documenta esce da Kassel e raggiunge altri luoghi: «Non volevo fare niente di colonialista, volevo lavorare con la gente locale e con il territorio. Così ho pensato a un questionario, per indagare quali parti dentro alla città di Kabul e in periferia fossero motivo di conservazione».
A Kabul Favaretto ci è stata due volte, la prima per "visitare e capire, la seconda per installare l'opera" perché il questionario non l'ha seguito lei personalmente: «Come in ogni questionario la gente risponde scrivendo anche un mare di cazzate e poi io sono di sesso femminile, una complicazione». Una volta individuati i sei luoghi più importanti, menzionati dai questionari, Favaretto ha fatto fare sei carotaggi e ha quindi riempito sei scatole di legno, quelle usate per la conservazione del materiale archeologico, ognuna con un carotaggio, scrivendoci sopra la location e l'analisi. L'installazione si è poi completata con l'esposizione di una delle pagine dei 100 questionari. Così come a Kabul anche a Kassel Favaretto ha lavorato con materiale già esistente «materiale che rimane nei luoghi dove ho agito» ci tiene a specificare l'artista. A Kassel sono stati prelevate e ordinate 400 tonnellate di ferro da una discarica. Quattro container al giorno: «A Kassel ho agito con apparente casualità ma anche con determinazione. Un clima di ambiguità del fare. Lasciavo al caso l'ammassarsi del ferro e allo stesso tempo perdevo magari un giorno intero per sistemarne un pezzo. Di tutto questo materiale ho poi selezionato degli oggetti di ferro... ovvero, sembianze di strutture, oggetti sì, ma falsi e in una stanza bianca del museo li ho riprodotti in cemento. Il ferro l'ho restituito al padrone della discarica perché venisse riciclato mentre al museo è rimasta la loro traccia. Quella che io chiamo la Reliquia».
Queste due installaz. ioni non si devono assolutamente confondere con la sua "piccola retrospettivina" al Moma Ps1. Così la chiama lei che a 38 anni si può già permettere una retrospettiva al Moma dove, racconta: «troviamo una sorta di rilettura di alcuni dei miei lavori» realizzati nei suoi suoi ultimi 15 anni di carriera. Nella prima sala ci sono bombole di gas a cui sono state applicate delle trombette di carnevale. Una seconda stanza è piena di terra - come l'opera che portò a Venezia - per proseguire in varie stanze dove dei tubolari ricordano i lavori di Mondrian. Sarà forse tutta colpa di Hegel ma quando parli di arte ti verrebbe da usare la parola... bellezza. Sia mai: «La bellezza non è un canone oggettivo, è un concetto. La bellezza è intrinseca nelle cose, parlare di bellezza è banale, un concetto ormai scaduto. Oggi bisogna mettere in crisi l'oggetto che si produce. Non vi può più essere produzione ma solo rottura. Bisogna scardinare i vecchi concetti. Anche la critica dell'arte va rinnovata, si intrattiene in paludi per comodità accademica, per quell'autocompiacimento che la condanna inevitabilmente alla mediocrità. L'artista deve rischiare. Deve anche prendersi il lusso di fare un brutto lavoro, perché un brutto lavoro è problematicizzare l'estetica». Favaretto, da Treviso a Torino, Kassel Kabul New York. Un'artista di fama mondiale.
Se le chiedi che rapporti abbia con Treviso, sua città natale risponde senza esitazione, come del resto si prende il lusso di fare sempre: «non è importante dove uno nasce, l'importante è che là vi sia stato un trauma».
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