L’antropologo dei disastri al cimitero di Chernobyl

A trent’anni dalla tragedia Matteo Benussi racconta i riti dei sopravvissuti «La centrale è meta del turismo atomico, i residenti restano vittime del trauma»
La centrale di Chernobyl
La centrale di Chernobyl

VENEIZA. L’unico luogo rimasto davvero vivo a Chernobyl è il cimitero. È proprio qui che una volta all’anno, nella settimana dopo la Pasqua ortodossa, la popolazione evacuata il 26 aprile 1986 torna a salutare i defunti, preparando un banchetto sulle loro tombe. Il particolare rito viene rispettato dal governo ucraino che in questa occasione chiude un occhio sul divieto di sostare nell’area in quanto radioattiva.

«Anche in altri posti i defunti vengono commemorati in questo modo» spiega l’antropologo Matteo Benussi, originario di Paese, laureato a Ca’ Foscari in Antropologia dei disastri con il professor Gianluca Ligi «ma a Chernobyl si crea una dimensione comunitaria che non esiste da nessun’altra parte perché qui si condivide la memoria del disastro. Tutte le persone che vivevano qui tornano per questo appuntamento. In genere portano un panettone benedetto e ne lasciano un pezzettino sulle tombe dei propri cari, insieme a un uovo dipinto e a un bicchierino di vodka». Benussi ha quasi 30 anni ed è uno dei massimi esperti italiani di Chernobyl.

Ha trascorso in Ucraina lunghi periodi, in particolare nella Polesia, tra i poleshchuki, la popolazione più colpita dall’incidente della centrale nucleare. A trent’anni dal disastro «la centrale nucleare è diventata meta di un business del turismo atomico che fa parte delle visite ai siti tragici, come per esempio Auschwitz» osserva Benussi «ma mentre attorno al campo di concentramento si è costruita una narrazione che invita a riflettere su questioni etiche, a Chernobyl questo manca e si è ancora in una fase di elaborazione di quanto successo».

In questo periodo si sta ultimando il famoso coperchio, la struttura di protezione metallica che coprirà parte della centrale, ma c’è ancora molto da capire. Il coperchio non deve diventare la scusa per mettere un punto sulle domande che non hanno ancora una risposta. «Per il mondo il disastro è stato l’esplosione del reattore» spiega Benussi «ma per gli ucraini il vero trauma è stata l’evacuazione e i conseguenti profughi. La radioattività è invisibile e quindi difficilmente riconoscibile come immediato disastro ambientale: essere sradicati dalle proprie radici è stata una ferita non ancora rimarginata». Per gli ucraini si parla di una vera e propria nostalgia della propria terra. «Questo legame si vede anche in alcuni comportamenti culturali, come per esempio l’andare a funghi che per loro rappresenta la completa immersione nella natura» dice «Nonostante i funghi siano il maggior ricettacolo di radionuclidi e ci sia quindi una discussione sull’inappropriatezza di andare a raccoglierli, l’attività è così sentita che spesso prevale sulla cautela».

Le cause che tardano la rielaborazione del disastro sono dovute a più fattori: la tragedia si è abbattuta in una zona rurale dove non c’erano e non ci sono gli strumenti per sviluppare un attivismo politico capace di interrogare il governo e l’area dopo il disastro è diventata svantaggiata economicamente e socialmente, il che rende difficile trovare con evidenza una connessione diretta con le patologie legate alla tragedia.

«La popolazione» conclude l’antropologo «chiede trasparenza e in molti soffrono dell’associazione che si fa tra Chernobyl e Ucraina, anche se c’è chi, come una società di videogiochi, ha sfruttato l’immaginario collettivo del paesaggio atomico, contribuendo a un’estetica apocalittica che non favorisce il superamento del trauma».

Ricordare il disastro è decisivo per evitare che le parole scritte in “Una preghiera per Chernobyl” dal Premio Nobel Svetlana Aleksievic si ripetano: «Niente di simile era mai accaduto prima. Le cose erano le stesse, eppure potevano uccidere».

 

Riproduzione riservata © La Nuova Venezia