L’abbraccio dopo 22 anni, queste due donne hanno salvato tanti bambini

FOSSÒ. Aveva abbandonato da poco la carriera di ricercatrice, quando una collega chiese a Loredana Vido, medico pediatra dell’ospedale di Padova, di fondare un’associazione per incoraggiare le neo mamme a donare il cordone ombelicale. I miracolosi potenziali delle cellule staminali, contenute nel cordone, erano all’epoca l’ultima frontiera della ricerca, e un terreno ancora del tutto sconosciuto per le persone comuni. «Ero indecisa se farlo o no» spiega la dottoressa Vido, oggi in pensione, «ma in generale poco propensa: mi sembrava troppo complicato. Io venivo da una situazione familiare difficile, avevo appena perso mio papà dopo due anni e mezzo di battaglia contro il cancro».
A farle cambiare idea, proprio mentre ne discuteva con una collega, fu l’incontro con una mamma di Fossò, che era in Pediatria semplicemente per una visita di controllo della figlia maggiore. Si avvicinò piano e, sollecitata dalla bambina, tirò fuori dalla borsa dei fogli scritti a mano, con una grafia infantile. Poesie. «Se avessimo trovato un donatore di cordone ombelicale, il mio Marco sarebbe ancora qui» disse la mamma, porgendo al medico quel foglio, scrupolosamente conservato fino a oggi.
Da quel giorno sono passati 2 anni, nel frattempo è nata l’Adisco (Associazione donatrici italiane sangue cordone ombelicale) e molte mamme hanno compreso l’importanza di quel dono gratuito e prezioso, salvando migliaia di giovani vite. Il ricordo di quella mamma è rimasto vivissimo nei ricordi di Loredana Vido, che due anni fa ha iniziato a cercarla.
E ieri, dopo 22 anni, l’ha incontrata nella Diocesi di Padova, alla presenza del direttore della Difesa del Popolo, Guglielmo Frezza, e di Daniele di Mont d’Arpizio, che hanno raccolto il suo appello e collaborato a far ritrovare le due donne. Si sono riabbracciate tra lacrime di gioia, nella memoria di quell’incontro e per la consapevolezza che quel gesto aveva fruttato tanto.
«Marco aveva solo 12 anni», ricorda Maria Grazia Rigato, «e tanta voglia di vivere. Perderlo è stato terribile, ma separarmi da alcune delle sue poesie non è stato un sacrificio: la nostra casa parla ancora tutta di Marco».
Erano gli anni Novanta: «Non avevamo i telefonini, e siccome Marco era in isolamento ci scambiavamo messaggi registrati: io e nostra sorella registravamo il nostro, la mamma glielo faceva sentire e lui registrava la risposta» racconta il fratello Davide.
Non solo: «Le stanze erano piccole e strette» ricorda la dottoressa Vido. Eppure in quello spazio angusto e triste, Marco sognava: «La gioia di vivere» scriveva, «è tanta, tanta, tanta, tanta quanto il mare e tanta quanto il cielo. La gioia di vivere è una gioia immensa».
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