LA RAPINA A QUARTO D’ALTINO / «Torturati per un’ora pensavamo di morire»
QUARTO D’ALTINO. «Ci hanno torturato per quasi un’ora, non credevo che saremmo arrivati vivi al mattino». Romeo Pavan e la moglie Lidia, hanno vissuto il peggiore degli incubi la notte tra venerdì e sabato, quando una bella serata tra amici, si è trasformata in un brutto sogno da dimenticare. Se ce l’hanno fatta – anche a detta dalla polizia – è solo per il sangue freddo dell’imprenditore, che ha fatto coraggio alla moglie, frastornata e sotto choc. Dopo aver passato la mattinata tra il Pronto Soccorso e la Questura, una volta a casa mostra il polso gonfio.
Picchiato. «Guardate», dice, «e questo è niente, questa mattina era il doppio». «I piedi ce li hanno legati con lo scotch di alluminio, le mani con le fascette da elettricista, le manette americane, che non si riescono a levare neanche con il coltello, perché mio nipote con il taglierino non ci è riuscito». Attorno ai polsi ha i segni della stretta. «Non credevo che sarei sopravvissuto alla notte». Prosegue: «Mi chiedevano il denaro, erano convinti di trovare 30-40mila euro, io gli ho detto che in casa non c’era la cassaforte, che avevo dei soldi, ma solo quelli. Si sono presi quanto avevo nel portafogli e in un cassetto, in tutto 1.500 euro. Ma loro volevano dell’altro e mi tenevano puntata la pistola alla tempia, poi andavano da mia moglie e la tenevano puntata sulla sua testa e mi dicevano “guarda che la ammazziamo”. E stringevano le fasce attorno ai polsi e alle gambe, legate una per una ad ogni piede della sedia».
Immobilizzati, con le vene bloccate, il sangue che non circolava; il panico. «Hanno continuato così per quarantacinque minuti. La polizia mi ha detto che non hanno fatto di peggio perché ho tenuto un comportamento freddo, perché gli ho detto “fate pure, ammazzatemi, ammazzate mia moglie, al massimo ci uccidete, ma soldi non ne abbiamo. Mia moglie urlava, le dicevo di stare tranquilla, che sarebbe stata lunga, che doveva stare calma. Prima di uscire ci hanno messo due giacconi sopra».
Perché in questo modo marito e moglie sarebbero stati impossibilitati a cercare di togliersi le fasce che avevano sul viso, bocca e occhi. «Uno di loro mi ha detto “buona notte”». Racconta: «Quando se ne sono andati, abbiamo gridato, ma niente. Piano piano ho fatto cadere la sedia di mia moglie, lei con la bocca ha cercato di slegarmi i piedi, si è rotta anche un dente. Poi mi sono ribaltato anch’io e siamo rimasti così, tutta la notte, per terra, a fianco alla vetrata e si può immaginare». Perché gli arti si gonfiavano, erano impossibilitati ad andare in bagno, in preda al panico, con il terrore di non farcela.
Quando sono arrivate le otto del mattino, stremati, hanno ripreso ad urlare, per farsi sentire dal fratello e dai nipoti.
Romeo Pavan si riprende: «Erano specialisti, tutti e quattro coperti dalla testa ai piedi, avevano passamontagna ed erano vestiti completamente di nero, sembravano in divisa, con pantaloni e giacca nera. Rapidi e organizzati. In casa ho delle armi per difesa personale, una Beretta e un fucile da caccia, ma non le hanno neanche toccate. Sono convinto che fossero dell’Est Europa. Sono quasi certo che fossero albanesi».
Il figlio e il fratello. «Al sabato iniziamo a lavorare alle 9», racconta il fratello, Walter Pavan, socio in affari, «ma oggi (ieri, ndr) avevo appuntamento con l’elettricista alle 8.15. Quando sono arrivato ho visto che non c’era nessuno, ho chiamato. Così li ho visti dalla vetrata esterna della cucina e ho chiamato subito mio figlio e i suoi, che si sono precipitati qui». Gianni Iasaia ed Anthony, infatti, abitano a Roncade.
«Abbiamo rotto un vetro della porta, mio fratello si è trascinato verso l’uscita, mi ha detto dove prendere le chiavi per aprire, ma non erano quelle della porta, perché i ladri andandosene, li avevano chiusi dentro. Da tanto gli dicevo di stare attenti, perché sono già venuti a rubare altre tre volte, questa è la quarta. E sempre portandosi via l’hard-disk della videosorveglianza».
Si sfoga: «Bisognerebbe essere poveri, non pagare le tasse, allora forse non ci accadrebbe niente». «Ero in doccia», racconta il figlio del fratello, Anthony, «quando mio padre mi ha chiamato mi sono precipitato fuori di corsa». «Hanno studiato tutto nel dettaglio, li seguivano da mesi». «Adesso aggiorneremo un’altra volta l’impianto», aggiunge Isaia. Di cambiare casa, non se ne parla».
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia