La Mostra rock ha guardato fuori dalla sua piccola isola
di Michele Gottardi
Quanto conti il presidente della giuria lo dimostra il palmares di quest’anno: difficilmente un’altra giuria sarebbe riuscita a premiare due film come il venezuelano “Desde allá” e l’argentino “El Clan”. Due film imperfetti che risentono degli stessi difetti dei loro protagonisti: il primo - dell’esordiente Lorenzo Vigas - troppo asettico e poco empatico - resta lontano dalle persone e dalle cose, il secondo - di Pablo Trapero - si avvita in una spirale narrativa, quanto la violenza messa in atto dalla famiglia di Buenos Aires, nonostante un bravo protagonista come Peter Lanzani. Film imperfetti: può esserlo per l’esordiente Vigas che tuttavia sembra un clone del cileno Pablo Larraín, per attori (Alfredo Castro) e scelte di regia; ancor meno per Trapero che narra in modo convenzionale una storia invece molto intrigante.
Ce n’erano di migliori? Sicuramente sì ed è impensabile che la scelta sia stata quindi solo estetica, di fatto diventando fortemente politica. Spazio dunque al cinema sudamericano, e non grideremo alla scandalo perché sappiamo anche quanto sia difficile per certi paesi giungere sin qui e quanto sia importante un riconoscimento per rafforzare autori e cinema nazionale. E tuttavia, caro presidente Cuarón, est modus in rebus, così è davvero sfacciato. E se quantomeno generoso - pur nella particolarità della stop motion - appare il Gran premio della giuria ad “Anomalisa”, assolutamente condivisibili sono invece i premi agli attori compreso il Mastroianni al giovanissimo Abraham Attah di “Beasts of no Nation”. Perfette le coppe Volpi: quella a Valeria Golino (“Per amor vostro”) premia un’attrice maturata nel tempo, sin da quando quasi trent’anni fa esordì qui, premiata, in “Storia d’amore” di Citto Maselli: evidentemente il cornicione finale le porta bene. Il riconoscimento a Fabrice Luchini consacra un grandissimo attore, dotato di una finezza e di un umorismo sottile che anima tutto quel delizioso film di Christian Vincent che è “L’hermine”, che vince giustamente anche il premio per la migliore sceneggiatura.
È stata una Mostra rock, e non solo perché è arrivato Vasco o perché nei film sono entrati in qualche modo Laurie Anderson, Lou Reed (poco) e Janis Joplin (molto e bene). È stata una mostra rock perché - pur nelle difficoltà del momento - ha saputo guardare fuori dall’isola, oltre quel piccolo arcipelago di critici, cinefili e addetti ai lavori che frequenta i festival. La Mostra è stata rock perché ha saputo parlare al pubblico più vasto, ha dialogato con la grande storia della Shoah e di Israele, di “Francofonia” e di “Remember”, i bambini soldato, le favelas venezuelane e i mafiosetti argentini, ma ha saputo anche scherzare sul Fato, ai due punti opposti dell’emisfero, dall’Australia all’universale apologo del polacco Skolimovski di “11 minuti”.
L’Italia ha avuto qualcosa e come sempre si dirà che non ha avuto abbastanza. È stata sicuramente eccessiva la sua partecipazione, ma ha retto tutto sommato in modo dignitoso. Non ci sono stati film inguardabili, come in un certo passato, né d’altra parte si è assistito a scene di isteria censoria o di spocchia produttiva. Il migliore del lotto è stato quello che non c’era, ovvero “Non essere cattivo” dello scomparso Claudio Caligari, ma né Gaudino, né Bellocchio hanno sfigurato. Qualche star è arrivata e il festival non è stato così quaresimale come lo si era dipinto. Occorrerà abituarsi all’idea che il cinema americano più hollywoodiano resti distante dall’Europa, e non solo perché privilegia Toronto. È la modalità dei festival che alle major non interessa più. È stato anche l’ultimo anno del mandato di Alberto Barbera. Al di là del giudizio sulle scelte - che riflette la produzione annua - l’idea di cinema, elegante ma non elitario, è condivisibile nel suo complesso, attenta anche a cinematografie minori. La sua riconferma è legata a quella del presidente Baratta, ma questa è un’altra storia.
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