“La gemella H”

Chi sono i nostri padri e, di conseguenza, chi siamo noi? La domanda che pone Giorgio Falco in “La gemella H” (Einaudi, pp 360, 18,50 euro) è inquietante. In compenso la risposta è addirittura urticante: non conosciamo i nostri padri, non vogliamo conoscerli e non vogliamo conoscere di conseguenza noi stessi, il nostro tempo. La struttura di “Gemella H” è quella del grande romanzo borghese, la storia di una famiglia attraverso un secolo o quasi. Una famiglia tedesca, che però diventa italiana, passando, come un filtro, attraverso l’Alto Adige per poi insediarsi nella Riviera romagnola, a Milano Marittima, che diventa paradigma del nascente turismo di massa e quindi del consumismo. A raccontare è per lo più una delle due gemelle H, Hilde e Helga, quella da cui ci si attende la ribellione, la rivelazione. Ma è proprio questo che in fondo non avviene. Il padre veste in camicia bruna, si arricchisce sulle vittime ebree, ma non è il male assoluto, è il nazista della porta accanto, uno che in altro contesto sarebbe anche altro. E lo diventa, altro. Ma senza pentimenti, senza sensi di colpa, con una sorta di continuità che le figlie non rinnegano, non condannano, semplicemente passano oltre. Giorgio Falco teorizza una sorta di continuità del Novecento, nega la cesura resistenziale: non c’è infinita di distanza tra le autobahn naziste e le autostrade della villeggiatura. Il volto totalitario del consumismo ha bisogno di rimozione, di ignorare paternità e legami. E per questo “La gemella H” non è un libro ideologico, non è un libro di denuncia, è un racconto d’epoca, una presa d’atto che non può neppure essere amara. Semplicemente è così che è andata, ed Helga e Hilde non sono diverse dagli altri: hanno preferito voltare la testa.
Riproduzione riservata © La Nuova Venezia