La dinamite per uccidere il pm antimafia

Il boss aveva ereditato il comando di un’importante famiglia di Cosa Nostra. Si era rifugiato proprio a Mestre.
Ora sta vuotando il sacco e racconta come volevano uccidere il pm Di Matteo

VENEZIA Vito Galatolo, «u’piciriddu», ha ereditato il bastone del comando dell’Acquasanta dal padre Vincenzo, un vero boss di Cosa Nostra finito all’ ergastolo e al 41 bis (l’articolo del regolamento carcerario che ostacola i rapporti con l’esterno ai mafiosi più pericolosi) a causa di una condanna all’ergastolo per gli omicidi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, spedito a Palermo dal governo di allora per fare il prefetto, e della moglie. A Mestre, in via San Pio X, in pieno centro, assieme alla famiglia, c’è arrivato nell’ottobre di due anni fa, allontanato dalla Sicilia dall’autorità giudiziaria (una volta si chiamava confino), dopo aver scontato una pena di sedici anni di reclusione per associazione di stampo mafioso e altri reati. Il 17 aprile 2013 la prima interruzione della sua permanenza veneziana: finisce in carcere assieme ad un altro palermitano trapiantato in Veneto, Giuseppe Corradengo, titolare di alcune ditte una delle quali lavorava in sub appalto all’interno della Fincantieri di Marghera, una seconda era attiva a Monfalcone. Cinque mesi dopo, a settembre, il Tribunale del riesame di Palermo, però, scarcera entrambi: secondo la Procura del capoluogo siciliano, comunque, i due avrebbero organizzato l’infiltrazione prima nei cantieri navali della Sicilia, quindi in quelli sia della costa adriatica, con la famiglia di Acquasanta, sia di quella tirrenica, con la famiglia di Resuttana. La libertà, comunque, dura poco, perché nove mesi dopo, il 23 giugno scorso, per «u’picciriddu» scattano di nuovo le manette: estorsione e associazione di stampo mafioso le accuse. Nomina, oltre ad un legale palermitano, anche l’avvocato veneziano Mauro Serpico. Ma bastano appena cinque mesi di carcere duro, il 41 bis scatta anche per lui, e Galatolo junior decide che non vale la pena e segue le orme della sorella, che già da tempo collabora con lo Stato. L’avvocato Serpico lascia la sua difesa immediatamente. E subito avvisa i giudici di Palermo e Caltanisetta delle intenzioni del capo dei capi, Matteo Messina Denaro, di voler uccidere Nino Di Matteo e ancora una volta utilizzando una bomba. Così, gli investigatori cercano l’esplosivo acquistato in Calabria: «Io mi impegnai con 360 mila euro mentre le famiglie di Palermo Centro e San Lorenzo si impegnarono per 70 mila euro. Così fu comprato l’esplosivo: io l’ho visto a Palermo, era composto di tanti panetti di colore marrone avvolti da pezze di tessuto. Era contenuto in un fusto di lamiera e in un grande contenitore di plastica dura. Sopra i bidoni vi era una scatola di cartone e all’interno un dispositivo in metallo». Una descrizione precisa, ma Galatolo probabilmente parla anche del suo lungo soggiorno veneziano e non è escluso che fornisca ai pubblici ministeri che lo interrogano particolari sia sulle ditte che lavoravano alla Fincantieri e in quale modo ottenevano gli appalti sia sui rapporti avuti con Novello al Tronchetto.

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