La comunità bengalese: «Stanchi di subire, ora ci difenderemo da soli»

Seimila persone, trecento attività commerciali e una diffusa sensazione: «Colpiscono noi perché siamo miti e pacifici» 

MESTRE. «Se comune e forze dell’ordine non ci garantiscono sicurezza, c’è il rischio che chiudiamo». Jitu Mazi, è il giovane bengalese che ha rilevato qualche anno fa la macelleriadi via Fapanni, trasformandola in un negozio di alimentari che sabato sera ha dovuto scegliere: farsi picchiare dal branco di ragazzini italiani e stranieri che volevano da bere gratis e gli lanciavano le uova addosso, oppure difendersi. Ha messo da parte l’istinto nonostante uno di loro lo stringesse al collo, due lo tenevano fermo e lo riempivano di pugni sul petto mentre gli altri infierivano sul suo aiutante. «Se tiravo fuori dal banco uno dei coltelli che uso per la carne» racconta col senno di poi, «cosa sarebbe accaduto? Sarebbe finita male, io forse non sarei qui».



L’aggressione di sabato è solo l’ultima di una serie che vede come bersaglio delle baby gang, la comunità bengalese: una comunità che nel Comune di Venezia conta oltre seimila persone, anche se fonti diverse parlano addirittura di un numero vicino alle ventimila persone, e gestiscono trecento attività commerciali. Fruttivendoli, minimarket, macellerie gestiti da bengalesi, una distesa che dal centro si allunga verso la stazione.

Un fenomeno carsico: qualche anno fa nel mirino erano finiti bengalesi di Marghera. La notizia nella comunità si è sparsa velocemente. Jitu ha un avvocato, attraverso di lui ha chiesto al Comune sicurezza: «Abbiamo bisogno di tutela» spiega, «perché la situazione in questa zona è peggiorata, questi ragazzini che tutti conoscono entrano, chiedono da bere gratis, rubano, poi diventano violenti e picchiano e noi abbiamo paura, anche perché sanno che non possiamo reagire».

La sera – spiegano - in parco Ponci fumano e spacciano. Poco più in là, in via della Torre, Hannan racconta lo stesso disagio. Meno di un mese fa un’incursione di una banda nel suo frutta e verdura. «Erano sette forse otto» racconta «io ero dietro, hanno preso un oggetto di ferro e hanno spaccato la vetrina, poi sono scappati».

Rashid sta dietro il bancone dell’alimentari di via Circonvallazione. Un anno e mezzo fa nel mirino era finito il suo negozio. Non è stato vittima di violenza, ma di furto e scorrerie, sempre messe in atto da bande che non volevano pagare. «Da me per fortuna non sono più tornati» spiega, «ma so che è accaduto da altre parti, e diversi di noi vengono derubati».

Il metodo usato è sempre lo stesso, anche contro quei bengalesi che si ritrovano in centro di ritorno dal gioco del cricket, sport nazionale. Vengono circuiti, poi arriva la richiesta di farsi dare il cellulare e se non si accetta, scatta il pestaggio: «Basta, è ora di farla finita» sbotta il presidente della Venice Bangla School Kamrul Syed: «E’ troppo tempo che queste bande rubano, picchiano, spargono terrore. E il Comune cosa fa? E le forze dell’ordine? Sanno chi sono, dove girano, è ora e tempo di fare qualche cosa, altrimenti prima o poi anche i bengalesi passeranno alle maniere forti. Anche noi lo possiamo fare. Vogliamo essere difesi, non è possibile andare avanti così. La tecnica la conosciamo tutti: mandano avanti qualche minore, italiano possibilmente così è meno esposto, ma dietro ci sono ragazzi più grandi dei Paesi dell’Est e dell'Albania, che vivono di furti, pestaggi, che hanno un mucchio di precedenti. Non sono ragazzini, sono grandi e grossi e si approfittano di noi perché sanno che non possiamo reagire». Alla domanda sul perché proprio i bengalesi, unanime la risposta: «Siamo stranieri, siamo miti e non vogliamo problemi». —

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