«La bonifica non servirà a nulla se non si chiude tutta la muraglia»
MARGHERA. Soldi che rischiano di finire al vento, collaudi inutili perché fatti su singoli interventi, gestione incontrollata degli appalti da parte del Consorzio Venezia Nuova. Sono già stati spesi 781 milioni di euro per le bonifiche di Porto Marghera ma rischiano di essere stati spesi invano se non si completeranno le barriere - arrivate al 94% e che già stanno facendo acqua - per separare i terreni delle aree industriali dall’acqua della laguna. All’appello mancano poco più di tre chilometri di interventi tra marginamenti e rifacimento delle sponde, interventi per i quali occorrono 250 milioni di euro. Di soldi però, come risulta da un’informativa del ministero dell’Ambiente dello scorso 27 ottobre, non ce ne sono più. La denuncia è contenuta nelle 54 pagine della relazione dedicata alle bonifiche di Porto Marghera dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti presieduta dal parlamentare del Pd Alessandro Bratti.
La barriera protettiva. «La situazione è abbastanza complicata», osserva il presidente della commissione Bratti, «e se non si completano le opere e non si chiudono i varchi che lasciano lingue con un'apertura tra i 20 e gli 80 metri si rischia di vanificare tutto quello che è stato fatto finora». Allo stato attuale le opera di barriera sono un «colabrodo», per usare le parole di Bratti, e gli inquinanti continuano a essere versati in laguna. Inquinanti come arsenico, mercurio e nichel, frutto delle emissioni e dell’impiego di rifiuti della zona industriale - come ricorda la relazione - per far avanzare la linea di costa. Per questo, oltre dieci anni fa, il governo ha deciso di intervenire realizzando una barriera lunga quasi cinquanta chilometri di palancole metalliche conficcate nel terreno fino a 22 metri di profondità per isolare le sponde dei canali industriali e delle isole di Porto Marghera, convogliando in una condotta drenante collegata al depuratore di Fusina gli inquinanti di cui sono imbottiti i terreni, evitando di farli finire in laguna.
I soldi che mancano. Per completare le opere servono 250 milioni che sono più del 30% di quanto finora impegnato dallo Stato. Un picco di spesa finale dovuto al fatto che gli interventi che mancano sono quelli più complessi, in corrispondenza di impianti e tubazioni delle società come Edison e Syndial. La suddivisione delle spese per realizzare le opere incompiute è di competenza del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche con 100 milioni, della Regione per 80 milioni e dell'Autorità portuale di Venezia per altri 70. Ma i soldi, al momento, non ci sono. Ed è un grosso problema perché «il mancato completamento di tali opere sta provocando il progressivo indebolimento anche dei tratti terminali delle strutture già realizzate», si legge nella relazione, «e sta mettendo in serio dubbio la bontà complessiva degli interventi finora realizzati, che sono stati eseguiti non a regola d’arte». Ma se i soldi non ci sono, si evince dalla relazione, è anche perché sono stati spesi male, soprattutto sul fronte dei collaudi, frazionati.
Collaudi per tutti. Oltre un milione e mezzo di euro sono volati in collaudi (parziali) e l’importo potrebbe presto arrivare a 2 milioni se - osserva la relazione - si continueranno ad assegnare con gli stessi criteri. In un’audizione dello scorso luglio Giuseppe Fiengo, amministratore straordinario del Consorzio Venezia Nuova, ha spiegato che «le commissioni di collaudo sono composte da due tecnici e da un amministrativo e che la presenza di quest’ultimo nelle commissioni di collaudo “non è funzionale” al collaudo, ma costituisce per il collaudatore nominato “un premio per altre attività ….però non c’è dubbio che gli stipendi aumentano in modo considerevole”». I collaudi fatti sui singoli interventi e non sull’opera conclusiva «rappresentano, nel caso specifico, un mero sperpero di danaro pubblico», è la dura presa di posizione della commissione d’inchiesta, «in quanto si tratta di collaudi del tutto inutili se non seguiti dalla verifica della funzionalità complessiva dell’intera opera eseguita». E a fare specie è che i collaudi siano stati assegnati a dirigenti regionali come Roberto Casarin o Mariano Carrarto, ex capi di gabinetto del Ministero dell’ambiente come Luigi Pelaggi o direttori generali del Ministero dell’ambiente come Mauro Luciani. E ancora figure apicali del magistrato alle acque di Venezia (Maria Adelaide Zito), ex figure apicali del Ministero dell’ambiente (Ester Renella) e componenti e presidenti della Commissione Via dello stesso Ministero (Monteforte Specchi Guido, Fernanda D’Alcontres Stagno).
Appalti senza controlli. Emerge dalla relazione anche lo strapotere del Consorzio Venezia Nuova nell’assegnare gli appalti per i lavori senza alcuna forma di controllo, come già era emerso dall’inchiesta Mose che vede a processo l’ex ministro Altero Matteoli il quale chiese a Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio, di assegnare appalti per le bonifiche all’amico Erasmo Cinque della Socostramo. «L’Ufficio del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche nella veste di committente dei lavori per conto dello Stato», si legge ancora nelle relazione, «non ha mai esercitato né esercita tuttora alcun effettivo controllo sia sul sistema di assegnazione, da parte del Consorzio, dei subappalti relativi al Mose e alle bonifiche, sia sulla congruità dei corrispettivi dati alle ditte subappaltatrici».
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